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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 22/01

Alle ultime elezioni legislative del settembre 2022, la formazione di estrema destra dei Democratici svedesi (DS) ha superato il 20% dei consensi. Pur scegliendo di non far parte del nuovo governo, questo partito ha assicurato l’appoggio esterno all’esecutivo conservatore del Primo ministro Ulf Hjalmar Kristersson, acquisendo così un potere di condizionamento molto significativo. Tale condizionamento rischia di indebolire l’azione della Svezia durante il semestre di Presidenza del Consiglio dell’UE, in quanto i DS hanno una posizione nazionalista ed euroscettica. Un primo banco di prova si avrà con riguardo ad una delle priorità della Presidenza svedese (il sostegno alla “transizione verde ed energetica”), visto che a livello nazionale i Democratici svedesi negano l’urgenza della difesa ambientale e chiedono che molti fondi pubblici stanziati per far fronte al cambiamento climatico siano destinati ad altre finalità, proprio quando Ursula von der Leyen dichiara a Davos che l’Unione europea deve “realizzare la transizione verso le emissioni zero senza creare nuove dipendenze” (il testo integrale in inglese del discorso è disponibile qui). Dell’influenza che la politica interna svedese potrà avere sul semestre di presidenza ha scritto Linkiestaleggi

 

Il progressivo scivolamento a destra dell’elettorato europeo non sta solo determinando un cambio di orientamento delle priorità di molti governi nazionali, ma potrebbe presto preludere ad un cambio del tradizionale assetto politico in seno alle Istituzioni europee, in particolare al Parlamento, dove la presenza consistente di una destra conservatrice e nazionalista metterebbe definitivamente in crisi l’assetto storicamente basato sulle forze popolari, socialiste e liberali. Le ripercussioni sarebbero significative: non ultima la prospettiva di un abbandono della via federalista a favore di un’ipotesi confederale, più arrendevole nei riguardi degli interessi dei singoli Stati membri e restia ad accettare il primato del diritto comunitario. A questo possibile scardinamento dei valori tradizionalmente difesi dal Movimento federalista europeo dedica una disincantata riflessione Pier Virgilio Dastoli, presidente Movimento Europeo Italia, sul portale key4biz.itleggi.

 

Sarà forse perché le informazioni circolano con velocità crescente, ci raggiungono e scompaiono in tempi brevissimi, che abbiamo l’impressione di assistere ad un’accelerazione frenetica della Storia. Un paio d’anni bastano per darci la sensazione di un cambio d’epoca. Nel novembre 2019, nel corso di un’intervista all’Economist (vedi), il Presidente francese Emmanuel Macron fece scalpore giudicando la NATO in “morte cerebrale”. Poco più di due anni dopo, quando i carri russi sono entrati in Ucraina, non solo la NATO ha dimostrato una vitalità inaspettata, ma l’intero concetto di euro-atlantismo ha riacquisito popolarità ed è ormai considerato un pilastro dell’unità d’intenti delle democrazie occidentali. In quest’ottica si evolvono i rapporti tra l’Unione europea e l’Alleanza atlantica, non solo con riguardo al sostegno all’esercito ucraino, ma anche e soprattutto nello sforzo di definire le aree di cooperazione futura. Il sito dell’Istituto affari internazionali ha dedicato una precisa analisi all’argomento: leggi.

 

Gli appelli a favore del rapido accoglimento nell’Unione europea dei paesi dei Balcani occidentali sono diventati talmente comuni che non occupano nemmeno il taglio basso delle prime pagine dei giornali. Fino a pochi anni fa c’erano concrete preoccupazioni circa le possibili conseguenze socio-economiche dell’ingresso dei cosiddetti Western Balkans Six (WB6) nell’UE, ma con il tempo tali preoccupazioni sono andate scemando: dopotutto, in termini di popolazione e PIL la regione rappresenta un’entità frazionale rispetto all’Unione. Resta invece vivissimo il timore che, diventando Stati membri senza aver risolto i loro problemi bilaterali, i WB6 diventino elementi di divisione e conflittualità all’interno delle Istituzioni. Ed è ovvio che il principale problema bilaterale è quello tra Serbia e Kosovo, apparentemente lontano da una soluzione. Le crisi ricorrenti degli ultimi mesi confermano lo stallo fondamentale della situazione, e i toni populistici delle leadership di Belgrado e Pristina mantengono le braci accese sotto qualsiasi strato di cenere. Ha riassunto la situazione un’analisi pubblicata (in serbo) da Deutsche Welle (qui), ripresa in italiano dall’Osservatorio Balcani-Caucasoleggi.

 

Quando ci sono posizioni discordanti su materie tecniche (aiuti di Stato, agricoltura, concorrenza, eccetera) è prassi che la Commissione europea cerchi sistematicamente un’interlocuzione con gli Stati membri per scongiurare scontri istituzionali. Molta meno flessibilità c’è invece quando i contenziosi riguardano i principi fondanti dell’Unione e in particolare il rispetto dello stato di diritto. La fermezza dell’approccio della Commissione si è manifestata ad esempio nel blocco dei fondi del PNRR destinati alla Polonia per la conclamata violazione da parte di questo paese del principio della terzietà della magistratura. Il governo populista polacco ha cercato di resistere alle richieste di Bruxelles di correggere la legislazione in vigore, ma alla fine ha stimato più utile rimettere mano alle norme contestate sull’indipendenza dei giudici. Ciò ha provocato una spaccatura tra i deputati della maggioranza di governo, ma il primo ministro Morawiecki confida che le nuove norme siano presto approvate, in modo che i miliardi del PNRR siano finalmente versati alla Polonia. Del complesso equilibrio raggiunto in seno al Parlamento di Varsavia racconta il portale Notes from Polandleggi

 

Parlare oggi di Brexit è come parlare del te delle cinque o dei crucci di casa Windsor: stereotipi da salotto quando si discorre del Regno Unito. Non sfugge tuttavia quanta importanza abbiano per il benessere presente e futuro del paese le conseguenze della Brexit. Negli ultimi tre anni (l’effettiva uscita dall’UE è del 31 gennaio 2020) si sono sgretolate le certezze di molti fautori della scelta isolazionista che prevedevano immediati effetti positivi da una piena autonomia decisionale. Ci si accorge ora, per esempio, che non è pensabile abrogare puramente e semplicemente migliaia di norme derivate dal diritto comunitario (si veda qui cosa ne scrive la BBC), e i più preoccupati sono proprio gli imprenditori ai quali era stata promessa la “liberazione” dai vincoli europei. Ma anche politici di rilievo, come il sindaco di Londra Sadiq Khan (leggi il suo intervento dal sito OnLondon), chiedono chiaramente non uno ma molti passi indietro, fino al ritorno nel mercato unico e nell’unione doganale. Tuttavia, gli aspetti più preoccupanti riguardano il lavoro. Uno degli obiettivi della Brexit era quello di contenere l’afflusso di lavoratori stranieri e in questo caso il risultato è stato effettivamente raggiunto: ma a soffrirne è stata l’intera economia britannica, che – come scrive Euractiv.it – ha perso complessivamente 330.000 posti di lavoro (leggi).