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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 28/05 "Grandi firme"

Per l’ineffabile legge del contrappasso, sono proprio quelle attività umane che dalla rivoluzione industriale in poi hanno portato ad un significativo miglioramento delle condizioni di vita di miliardi di esseri umani, che devono adesso venir ripensate e corrette per evitare un irrimediabile stravolgimento ambientale del pianeta. Se le opere di cosiddetta “messa in sicurezza” del territorio possono contenere i danni provocati da fenomeni atmosferici sempre più violenti, il cambiamento climatico che è all’origine di tali fenomeni può essere rallentato solo da misure drastiche e di lungo periodo. In realtà, nonostante limiti e tentennamenti, va riconosciuto che il processo proattivo di lotta al cambiamento climatico è già cominciato, come dimostra il susseguirsi di importanti decisioni assunte dai principali attori economici mondiali: gli Stati Uniti, la Cina e l’Unione europea. Quest’ultima in particolare sta conducendo un’azione d’avanguardia con il suo Green Deal (illustrato sul sito della Commissione: qui). E, nonostante le critiche che spesso sono loro mosse, quando le Istituzioni dell’UE assumono iniziative incisive, in genere danno il via ad uno sforzo emulativo, tanto che si è cominciato a parlare di un “effetto Bruxelles” (si veda un articolo di legrandcontinent.eu del 2021 – leggi). Vi fa riferimento un’analisi de Linkiesta sulla “carbon neutrality”, ovvero il raggiungimento di un bilancio a saldo zero tra emissione e assorbimento di anidride carbonica: leggi.  

 

Il braccio di ferro tra l’Ungheria di Orbán e l’Unione europea in merito al rispetto dello stato di diritto è ormai più che decennale. (Un excursus dei rapporti tra Ungheria ed UE è disponibile su un sito d’informazione del Lichtenstein GISleggi.) Tuttavia, la disputa si è inevitabilmente inasprita con la decisione di Bruxelles di bloccare l’erogazione di fondi comunitari in attesa che Budapest corregga almeno le violazioni più macroscopiche dei principi fondamentali dell’UE ed in particolare il pieno rispetto dell’indipendenza della magistratura. Questo ha suscitato reazioni indignate da parte di Orbán e di suoi ministri (fino alla velata minaccia di uscire dall’Unione, come riporta l’internationalwebpost.orgleggi), ma soprattutto non ha ancora portato ad una correzione di rotta tale da consentire il normale flusso di finanziamenti, come ha constatato la commissione per il controllo dei bilanci del Parlamento europeo in missione a Budapest: ne ha scritto EUNewsleggi. Nel frattempo, fondi comunitari già stanziati in passato continuano a finanziare importanti infrastrutture ungheresi: ne ha riferito in questi giorni l’agenzia Sirleggi. Interessante il confronto con il rilievo (minimo) dato al contributo UE sulla stampa locale: vedi qui la notizia da hungarytoday.hu

 

I dubbi e le incertezze (geo)politici, economici e sociali suscitati dagli avvenimenti che hanno caratterizzato questa prima parte del XXI secolo – inaugurata drammaticamente dall’attacco alle torri gemelle di New York del 2001 e giunta ad un’acme (provvisoria?) con la guerra in Ucraina – sembrano preludere ad una delle grandi “ristrutturazioni” dell’ordine internazionale, come avvenne con la creazione della Società delle Nazioni (1920), gli accordi di Bretton Woods (1944) o la nascita delle Nazioni Unite (1945). A livello europeo, fu la firma del Trattato di Roma (1957) a marcare l’introduzione di un nuovo ordine continentale, dapprima limitato all’Europa occidentale, quindi esteso anche alle regioni centro-orientali. Quell’ordine, che ha garantito decenni di pace, stabilità e prosperità, è attualmente regolato dalle norme dei Trattati di Lisbona. Entrati in vigore nel 2009 sulle ceneri della mai nata Costituzione europea, reclamano da tempo un aggiornamento. Quali siano i principali nodi che una revisione dei Trattati dovrà sciogliere è sinteticamente ma chiaramente indicato in un articolo di Alberto Quadrio Curzio sull’Huffington Postleggi.

 


Grande rilievo e plauso era stato riservato alla decisione dell’Unione europea di favorire l’acquisto comune di vaccini ai tempi della pandemia di Covid19 e successivamente a quella relativa all’emissione di debito europeo comune per il reperimento di fondi da redistribuire agli Stati membri nel quadro del progetto NextGenerationEU. Pur non essendo nascoste o censurate, più sotto traccia rimangono invece le iniziative comuni finanziate dal bilancio dell’UE a favore del sostegno militare fornito dagli Stati membri all’Ucraina. Eppure in questo caso molti tabù, distinguo e perplessità sono stati spazzati in tempi sorprendentemente rapidi e senza che particolari ostacoli siano stati frapposti né dagli Stati membri, né dal Parlamento europeo. (Informazioni sul Fondo per la Difesa dell’UE si trovano qui). Di grande interesse è l’articolo dedicato a questo argomento dall’ex Segretario generale aggiunto della NATO Antonio Missiroli, pubblicato sul sito dell’ISPI - Istituto per gli Studi di Politica Internazionaleleggi.

 

Dalla caduta del muro di Berlino in poi, il processo di allargamento dell’Unione europea ha interessato maggioritariamente paesi ex sovietici o comunque già appartenenti al Comecon e al Patto di Varsavia. Per questo il processo di adesione all’UE si è sviluppato parallelamente a quello di adesione alla NATO, portando in auge il concetto di “euroatlantismo”, in seguito applicato anche nei confronti dei paesi dei Balcani occidentali, dove Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro sono già membri dell’Alleanza atlantica. Con tale concetto si tratta ora di fare i conti anche con riguardo all’Ucraina. Nella temperie bellica, il Presidente Zelensky è riuscito ad ottenere per il proprio paese lo status di candidato all’adesione all’UE e sta pressantemente chiedendo l’ingresso nella NATO. È evidente però che per quest’ultima aprire le porte a Kiev comporta rischi assai gravi. L’argomento sarà al centro del dibattito in occasione del vertice NATO di Vilnius del prossimo luglio. Un articolo a firma Carl Bildt sul sito Project Syndicate (leggi) offre un’illuminante analisi del dilemma, ricordando come l’argomento fosse già sul tavolo del vertice NATO di Bucarest del 2008 e come la soluzione allora adottata si sia rivelata, a posteriori, catastrofica. Facendo tesoro degli errori passati, in vista del vertice di Vilnius si sta ora pensando ad un “modello israeliano”, di cui parla un articolo di insideover.com (testata online de Il Giornale): leggi

 

Uno dei più sgradevoli pregiudizi nei confronti dell’Italia (purtroppo giustificato da clamorosi esempi storici) riguarda la disinvoltura con cui il paese sembra pronto a modificare le proprie alleanze. Anche a causa di tale pregiudizio, la tensione diplomatica tra Roma e molte cancellerie occidentali – il Segretariato di Stato americano in primis – sta salendo in vista del prossimo dicembre, quando il Governo Meloni-Salvini-Tajani dovrà decidere se rinnovare o meno il Memorandum d’intesa sulla Via della seta, firmato nel 2019 dal Governo Conte-Salvini. Purtroppo la scelta rischia di essere in ogni caso perdente: accettare il tacito rinnovo sarebbe molto mal visto da Washington e dai maggiori partner europei; denunciare l’accordo ci esporrebbe a possibili rappresaglie commerciali cinesi. L’argomento sta ricevendo crescente attenzione sulla stampa italiana, ma anche media esteri ne stanno scrivendo: si veda ad esempio l’articolo (in inglese) apparso sul sito di Deutsche Welleleggi. In italiano, un’impeccabile analisi del problema è proposta da Marta Dassù e Stefano Stefanini sul sito dell’Aspen Institute Italialeggi.