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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 14/09/2025

 

Come indicato nella locandina allegata, martedì 16 settembre Dialoghi europei riprende l’attività pubblica dopo la pausa estiva con la conferenza intitolata Verso il declino dell’occidente nei nuovi equilibri mondiali? Relatore sarà il Prof. Franco Bruni, presidente dell’Istituto di Studi di Politica Internazionale e professore emerito dell’Università Bocconi. Tra i temi affrontati, spazio sarà dato anche alle politiche economiche dell’amministrazione Trump e alle loro potenziali conseguenze per gli Stati Uniti e per il mondo. In vista della conferenza, chi fosse interessato alla tematica potrà utilmente leggere l’articolo intitolato “Quando crolla il dollaro” (When the Dollar Falls) dell’economista tedesco-americano Dennis Snower su Project Syndicate.

 

Il Piano Mattei, varato dall’esecutivo con il decreto-legge n. 161/2023 (poi legge n. 2/2024 – il testo coordinato è sulla Gazzetta Ufficiale), è una strategia quadriennale di cooperazione Italia-Africa del valore di circa 5,5 miliardi di euro (2,5 mld da fondi per la cooperazione e 3 mld dal Fondo per il clima), ampiamente illustrata sul sito del Governo: leggi.

A distanza di 18 mesi dall’annuncio dell’iniziativa, uno studio dell’Università cattolica di Milano segnalava tuttavia che “dei 5,5 mld stanziati [erano] stati allocati […] solo 600 mln” (leggi).
L’impressione che la fase di attuazione manchi ancora di dinamismo è confermata anche da analisi che pure giudicano positivamente il Piano: leggi ad esempio quanto scrive “Africa e Affari”, che segnala come “la vera sfida, nei prossimi mesi, sarà trasformare le numerose iniziative «avviate» e «interlocutorie» in risultati misurabili e tangibili”. C’è probabilmente consapevolezza di questa situazione nel Governo se, come segnala una ricerca dello IARI, “l’Italia sta rivitalizzando il suo «Piano Mattei»” (leggi).

Tuttavia Roma, che aveva puntato molto sui paesi del Nordafrica per la diversificazione dell’approvvigionamento di gas naturale, teme ora anche “la crescente cooperazione energetica tra la Russia e paesi africani come l’Algeria” (ibidem). È diventata quindi quasi una scelta obbligata per Giorgia Meloni ribadire la portata “continentale” del Piano Mattei, spostando almeno in parte l’attenzione dalla sponda sud del Mediterraneo ed intensificando i rapporti con altri paesi e regioni africane, come successo con l’Etiopia. L’attivismo del Governo italiano nel Corno d’Africa non è però privo di rischi nel quadro delle relazioni internazionali.
Come segnala Federico Donelli, docente presso l’Università di Trieste e membro del Direttivo di Dialoghi europei, in uno studio appena pubblicato per l’Orion Policy Institute di Washington, “tale approccio potrebbe rappresentare una sfida per l’Italia nei rapporti con i suoi partner dell’UE. L’impostazione di Roma è destinata a scontrarsi con l’iniziativa Global Gateway dell’Unione europea. Mentre Bruxelles pone l’accento su multilateralismo e standard di sostenibilità, il Piano Mattei privilegia il bilateralismo e la flessibilità” (leggi).

Parole chiave: Piano Mattei; Nordafrica; Etiopia

 
 

 

Nel discorso sullo Stato dell’Unione, pronunciato da Ursula von der Leyen il 10 settembre dinanzi al Parlamento europeo (il testo integrale è disponibile sul sito della Commissioneleggi), c’è un riferimento al rapporto sulla competitività dell’UE presentato da Mario Draghi un anno fa. È una breve menzione dal tono autoassolutorio (“Stiamo […]eliminando le principali strozzature individuate dalla relazione Draghi”) che contrasta con il tenore generale dei numerosi commenti apparsi in rete proprio in coincidenza con l’anniversario della pubblicazione (9 settembre 2024) del rapporto dell’ex Presidente della BCE (scaricabile dal sito della Cameraleggi).

La Fondazione Luigi Einaudi, ad esempio, è lapidaria: “La diagnosi […] rimane la stessa, eppure la prescrizione resta lettera morta” (leggi). Le fa eco Politico.eu, che così sottotitola un articolo in cui valuta dettagliatamente i progressi compiuti: “A un anno di distanza, i fallimenti superano i successi” (leggi).

Più sinteticamente, il think tank brussellese European Policy Innovation Council ha evidenziato che, “delle 383 raccomandazioni [contenute nel rapporto - NdC], solo l’11,2% è stato pienamente attuato. Anche considerando i progressi parziali, l’UE ha raggiunto solo il 31,4% degli obiettivi dell’agenda Draghi” (leggi).

Parole chiave: Rapporto Draghi; Competitività UE
 
La conclamata crisi della democrazia liberale assume aspetti concreti non solo nei paesi i cui governanti rivendicano l’illiberalismo (oltre all’Ungheria di Viktor Orbán – leggi cosa contiene il suo “manifesto” su Internazionale – si pensi alla Polonia ai tempi di Jarosław Kaczyński – leggi su Social Europe), ma anche laddove gli esecutivi puntano ad indebolire l’autonomia degli organi giurisdizionali, minando in tal modo il principio della divisione dei poteri.

L’America di Trump è un esempio che entrerà nei manuali di storia del diritto. Celebre l’affermazione ai tempi del primo mandato: “I tribunali non ci stanno aiutando, devo essere sincero con voi, è ridicolo. Qualcuno ha detto che non dovrei criticare i giudici. Va bene, allora criticherò i giudici.” (riferita da Euronews – leggi).

La critica e gli attacchi che a livello nazionale sono rivolti alla magistratura hanno un corrispettivo nella messa in discussione e nel rifiuto dell’autorità di svariate organizzazioni internazionali: dalla Corte penale dell’Aja, dalla quale il solito Orbán ha avviato le procedure di ritiro (leggi su Il dubbio), all’Organizzazione mondiale della sanità, invisa al Presidente statunitense (leggi sul Sole24Ore la notizia dell’uscita degli USA) e, sembrerebbe, pure al nostro Ministro della salute (leggi su RAINews).

La crisi più drammatica è tuttavia quella dell’ONU, l’organismo sovranazionale teoricamente più potente e simbolico, a proposito del quale Alcide De Gasperi dichiarò: “lo sforzo di organizzare le Nazioni Unite [è] uno sforzo per superare i conflitti e la guerra sulla base della eguaglianza e della ragione” (leggi sul sito della Fondazione).

Un’analisi appena pubblicata dallo IARI si concentra proprio sulla crisi dell’ONU, segnalando come “negli ultimi dieci anni, le Nazioni Unite hanno attraversato una fase di paralisi selettiva”, pur riconoscendo che “la loro presenza rest[a] fondamentale in campo umanitario, sanitario e normativo” (leggi).
 
Parole chiave: Crisi della democrazia liberale; Crisi delle istituzioni internazionali; Nazioni Unite
 
 
 

Non è una novità, ma succede sempre più spesso che l’Unione europea venga accusata di inadeguatezza ed inettitudine perché su questo o quel dossier non adotta una linea politica forte e decisa. Gli accusatori evitano però di ricordare che sovente la mancanza di una linea ben definita è la conseguenza di veti provenienti dagli Stati membri a difesa di puri interessi nazionali. Al recente vertice dei ministri degli Esteri a Copenaghen, l’Alto Rappresentante dell’UE Kaja Kallas ha deplorato la mancanza di consenso interno: “Se non abbiamo una voce unica […], non abbiamo voce sulla scena globale” (leggi sulla Reuters).

D’altronde, un’interessante analisi del Guardian di qualche mese fa (leggi) aveva già stigmatizzato la situazione: “Questa è la vera tragedia: i governi europei non mettono più in pratica gli ideali che proclamano”.
La questione dell’unanimità richiesta per molte decisioni a livello UE è emblematica. Molte voci hanno invocato una riscrittura delle regole – quella di Mario Draghi è tra le più autorevoli: leggi sull’Agenzia Vista) – ma nella quotidianità della vita politica ed istituzionale i principi vengono piegati all’esigenza del momento. Lo dimostra anche un esempio domestico.

Se da un lato il vicepremier Antonio Tajani ha affermato di credere “che ci siano da fare delle riforme soprattutto per permettere all’Europa di abolire il voto all’unanimità”(leggi sull’Agenzia Nova), dall’altro la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni si è mostrata molto più prudente: “Togliere il voto all’unanimità? Non so mica se a noi convenga” (leggi su La Sicilia).

Non deve sorprendere quindi l’atteggiamento di chi, come lo slovacco Robert Fico o il suo mentore ungherese Viktor Orbán, si dissociano palesemente dalle posizioni degli altri Stati membri e della Commissione, legittimando come interlocutori privilegiati Vladimir Putin e Xi Jinping (leggi su Il post).

Parole chiave: Unione europea; Unanimità; Interessi nazionali

 

Sulla complessa strada dell’avvicinamento all’Unione europea dei sei paesi dei Balcani occidentali, gli ostacoli di natura politica (e quasi ideologica) sono forse più ardui di quelli “tecnici” dell’adeguamento delle legislazioni. Basti pensare che per alcuni Stati membri (Cipro, Grecia, Romania, Slovacchia e Spagna) i paesi in questione sarebbero cinque e non sei, in quanto non riconoscono l’autoproclamata indipendenza del Kosovo (2008).

L’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ne parla come di un paese che “ufficialmente denominato Repubblica del Kosovo, è uno Stato a «riconoscimento limitato»” – leggi. Il Governo italiano fu tra i primi a riconoscere l’indipendenza di Pristina (ne scrisse La Stampaleggi), ma a livello europeo la situazione rimane bloccata (leggi il paragrafo “Kosovo” nelle Note tematiche sull’allargamento del Parlamento europeo), come lo è evidentemente nei rapporti con la Serbia (Aleksandar Vučić ha ribadito più e più volte la propria posizione: leggi ad esempio sul sito ticinese La Regione).

In questo quadro di stallo si è aggiunto a Pristina il vero e proprio rompicapo istituzionale che blocca la vita politica interna da quando, alle elezioni dello scorso febbraio, non si è delineata una maggioranza in grado di guidare il paese (leggi quanto scritto allora da EUNews).

Una dettagliata analisi dell’Osservatorio Balcani Caucaso, che segnala fin dal titolo che “Sette mesi dopo le elezioni, il Kosovo ancora non ha un parlamento costituito”, illustra il progressivo incepparsi dei meccanismi che regolano il funzionamento istituzionale, fino a mettere in dubbio alcune norme costituzionali: leggi.

Parole chiave: Kosovo; Stallo istituzionale; Parlamento