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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 12/10/25

 

Il successo delle trattative di Sharm el Sheik per la liberazione degli ostaggi e il raggiungimento di un cessate il fuoco a Gaza permette agli ottimisti di intravedere una prospettiva di pace futura. Il piano in venti punti predisposto dall’Amministrazione statunitense (che curiosamente non ne ha pubblicato il testo su un sito istituzionale, bensì sulla piattaforma X – leggi) stipula infatti – al punto 3 – che “se entrambe le parti accettano questa proposta, la guerra terminerà immediatamente” (una traduzione in italiano è disponibile sul sito Terrasanta.netleggi). Lo stile un po’ bolso è quello solito trumpiano (un’analisi molto interessante della lingua del Presidente americano è sul sito di Carnegie Europeleggi), ma non può sfuggire che quello generalmente definito “piano di pace” è in realtà intitolato “piano globale […] per porre fine al conflitto di Gaza” (vedi il citato post su X). Salutando il fatto che si è “posto fine al conflitto”, è lecito chiedersi verso quale soluzione di pace ci si stia avviando. In particolare, quando si esamineranno le responsabilità per le atrocità commesse, sarà interessante vedere se si adotterà l’approccio seguito dopo la seconda guerra mondiale, quando prevalse l’opinione che dovessero essere giudicati singoli individui (come avvenne a Norimberga – leggi quanto scritto da Euronews alcuni anni fa), o si tornerà a ragionare nell’ottica della responsabilità collettiva del belligerante sconfitto, come previsto dal Trattato di Versailles nel 1919, a proposito del quale la Holocaust Encyclopedia ricorda che “La parte più umiliante del trattato per la Germania sconfitta fu l’Articolo 231, comunemente noto come la «Clausola di colpa di guerra». Questa clausola obbligava la Germania (e non i suoi vertici politico-militari – NdC] ad accettare la piena responsabilità per l’inizio della Prima Guerra Mondiale” (leggi).

Parole chiave: Palestina; Pace; Responsabilità individuale; Responsabilità collettiva

 

Nonostante il green deal europeo e in genere le politiche “verdi” siano oggetto di critica se non addirittura di scherno (il ministro Salvini ha ad esempio parlato di “follie pseudo green” – leggi il dispaccio ANSA), il problema dell’approvvigionamento dei minerali critici indispensabili alla realizzazione di tali politiche continua a ricevere grande attenzione anche da parte dei governi e dei politici che più si dichiarano ostili ad approcci ambientalisti, in primis il Presidente Trump, che all’ONU ha definito il cambiamento climatico una “truffa” e un “imbroglio” (leggi o ascolta sul Time magazine). Gli Stati Uniti e, in Europa, il Governo italiano risultano essere tra i più tenaci sostenitori dell’importante progetto di ammodernamento e riqualificazione del cosiddetto Corridoio di Lobito, attraverso il quale far transitare gli ambiti minerali. Il Corridoio integra un sistema ferroviario che si snoda dallo Zambia al porto di Lobito in Angola attraverso la Repubblica Democratica del Congo (RDC) – ne hanno riferito l’ANSA (leggi) e, con un’analisi più organica, Internazionale (leggi). Quest’ultimo articolo sottolinea come l’obiettivo del progetto di rilancio del Corridoio sia quello di “favorire l’esportazione di materie prime fondamentali per la transizione energetica”, ricordando che la “RDC è la prima produttrice mondiale di cobalto. Insieme allo Zambia, produce anche rame in quantità. L’Angola possiede 36 dei 51 minerali fondamentali per le tecnologie verdi”. Sul tema, Geopolitica.info ha dedicato attenzione agli aspetti strategici dell’iniziativa, scrivendo di “un’occasione […] per l’Europa (e l’Italia) nel nuovo scacchiere africano” – leggi. Sullo sfondo permane la competizione con la Cina, che ha da poco firmato un accordo da 1,4 miliardi di dollari con Zambia e Tanzania “per rilanciare la Tazara Railway, la storica linea costruita da Mao Zedong negli anni Settanta per collegare la Copper-Belt zambiana al porto di Dar es Salaam sull’Oceano Indiano”, come ha scritto Formiche.net – leggi.

Parole chiave: Africa; Minerali critici; Corridoio di Lobito; Tazara Railway

 

 

Era nel febbraio scorso che, con preoccupato rilievo, Vatican News segnalava come “nella prima riunione […] della nuova amministrazione statunitense, il presidente, Donald Trump, ha calato la scure sui finanziamenti internazionali gestiti ed erogati dall’UsAid, l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale, tagliandoli del 92 per cento” (leggi). La decisione era apparsa sconsiderata a molti commentatori, e non solo per le sue conseguenze più dirette e scontate, come la chiusura di programmi di aiuti sanitari ed alimentari (a tale proposito, The Lancet ha pubblicato una corposa ricerca dedicata agli “effetti della riduzione dei fondi sulla mortalità da qui al 2030” – leggi). Il sito Diplomacy.edu aveva ad esempio immediatamente indicato che “il ritiro degli aiuti statunitensi potrebbe creare un vuoto che altri paesi, in particolare la Cina, sono ansiosi di colmare” – leggi. Sei mesi più tardi, l’Australian Strategic Policy Institute puntualmente titolava “Il soft power degli Stati Uniti risente degli effetti dei tagli a USAID” e sottolineava che “esistono casi documentati di interventi cinesi per il finanziamento di programmi d’aiuto quando l’assistenza estera statunitense è cessata” - leggi. Non è stata tuttavia solo Pechino a sfruttare gli spazi lasciati liberi da Washington. Anche l’Unione europea sta riconsiderando la propria azione. Come ha scritto Euractiv: “Quando l’amministrazione Trump ha smantellato i programmi di aiuti all’inizio di quest’anno, la posizione ufficiale dell’Unione europea era che il blocco non potesse «colmare il vuoto lasciato da altri». Dietro le quinte, tuttavia, funzionari della Commissione europea e del Servizio europeo per l’Azione Esterna discutevano dei passi che l’UE avrebbe potuto intraprendere, purché questi servissero agli interessi e ai valori europei” - leggi.

Parole chiave: UsAid; Tagli all’assistenza; Soft power cinese

 

Quando, nel settembre 2022, l’erede al trono saudita Mohammed bin Salman (MBS) venne nominato (dal re suo padre) Primo ministro, Il Post scrisse che era “accusato di essere il mandante di molti crimini” e che “secondo alcuni analisti la sua nomina [era] stata decisa proprio per proteggerlo da eventuali procedimenti giudiziari” - leggi. Il settimanale online The Arab Weekly (pubblicato a Londra) da parte sua sottolineò che la carica di Primo ministro conferiva a MBS “poteri più ampi per estendere la portata delle sue riforme e garantirne l’attuazione da parte delle istituzioni governative” – leggi. Il principe saudita aveva già lanciato nel 2016 un ambizioso piano (denominato Vision 2030 e illustrato in un documento disponibile sul sito dedicato – leggi) destinato a modernizzare “società, economia e nazione […], seguendo un progetto articolato in 96 obiettivi specifici da raggiungere entro 14 anni”, come ha scritto l’Osservatorio sul Mediterraneo tracciando un bilancio intermedio dell’attuazione del piano – leggi. Con il crescente ruolo strategico di Riyad anche al di là dello scacchiere mediorientale, il piano è diventato il canovaccio per il dialogo con i principali interlocutori internazionali. Ne è prova la benevola impostazione di una proposta di risoluzione del Parlamento europeo sulle relazioni bilaterali UE-Arabia Saudita, nella quale si afferma tra l’altro che il PE “accoglie con favore l’ambizioso programma «Vision 2030»” e che il regno saudita è un “partner bilaterale e regionale fondamentale per l’UE” (leggi). Ma un importante aspetto della politica attuata da MBS attraverso il suo piano, indice di un chiaro approccio strategico, si coglie in un bell’articolo pubblicato dall’ISPI dedicato più espressamente ai rapporti con gli Stati Uniti e ai relativi aspetti economici. Scrive in particolare l’autrice Amal Altwaijri che “Riyad sta trasformando i contratti di armamenti in politica industriale. Gli elementi più rilevanti non sono più solo il prezzo di vendita, ma la ripartizione del lavoro e il supporto logistico. I responsabili degli acquisti e i gestori dei fondi sovrani si presentano al tavolo con obiettivi di localizzazione, programmi di compensazione e domande sui diritti software e sulle responsabilità di manutenzione”. (leggi).

Parole chiave: Arabia Saudita; Vision 2030; Mohammed bin Salman

 

Non occorre essere politologi per osservare come siano numerosi i tratti che accomunano i modi di governare di Donald Trump e Recep Tayyip Erdoğan. Si è soffermato sulle analogie tra gli stili dei due presidenti un articolo del Democracy Seminar (una piattaforma di dialogo sulla democrazia): leggi. Ma proprio il confronto tra due personaggi dall’ego dirompente ha spesso portato a crisi acute (come nel caso della bizzarra lettera di Trump che minacciava di distruggere l’economia turca – leggi su Euronews), alternate a momenti di riavvicinamento, come quando Erdoğan fu uno dei pochi leader mondiali a telefonare a Trump subito dopo il tentativo di assassinio nel luglio 2024 (leggi sul sito mediorientale Al Monitor). La crisi più concreta e duratura è stata innescata tuttavia nel 2019 a seguito della decisione turca di acquistare i missili da difesa russi S-400, a scapito degli americani Patriot – ne riferì Al Jazeeraleggi. La reazione statunitense fu immediata e portò alla “cancellazione della partecipazione turca al programma F-35 e la definitiva sospensione delle consegne dei velivoli alla Turchia” come riportò, con alcuni interessanti dettagli tecnici, la Rivista Italiana Difesa (leggi). Ora, con i rumori di guerra che si addensano in Europa, torna a prevalere la collaborazione e l’unità di intenti. Il 25 settembre scorso Erdoğan è stato ricevuto alla Casa Bianca per un incontro che ha sancito “la volontà di entrambi i leader di ricalibrare un rapporto strategico che resta vitale per la NATO e soprattutto per gli equilibri mediorientali e il Mar Nero”, come ha scritto un articolo pubblicato dall’Osservatorio Balcani Caucaso (leggi). L’articolo sottolinea anche che “Le conseguenze del vertice vanno ben oltre la dinamica bilaterale e toccano la più ampia architettura di sicurezza euro-atlantica e mediterranea. Una Turchia che rafforza i legami con Washington accresce il proprio peso negoziale verso l’Unione Europea, dove i negoziati di adesione restano congelati ma la cooperazione su energia, migrazioni e difesa rimane indispensabile”.

Parole chiave: Trump; Erdoğan; Rapporti USA-Turchia