Era nel febbraio scorso che, con preoccupato rilievo, Vatican News segnalava come “nella prima riunione […] della nuova amministrazione statunitense, il presidente, Donald Trump, ha calato la scure sui finanziamenti internazionali gestiti ed erogati dall’UsAid, l’Agenzia americana per lo sviluppo internazionale, tagliandoli del 92 per cento” (leggi). La decisione era apparsa sconsiderata a molti commentatori, e non solo per le sue conseguenze più dirette e scontate, come la chiusura di programmi di aiuti sanitari ed alimentari (a tale proposito, The Lancet ha pubblicato una corposa ricerca dedicata agli “effetti della riduzione dei fondi sulla mortalità da qui al 2030” – leggi). Il sito Diplomacy.edu aveva ad esempio immediatamente indicato che “il ritiro degli aiuti statunitensi potrebbe creare un vuoto che altri paesi, in particolare la Cina, sono ansiosi di colmare” – leggi. Sei mesi più tardi, l’Australian Strategic Policy Institute puntualmente titolava “Il soft power degli Stati Uniti risente degli effetti dei tagli a USAID” e sottolineava che “esistono casi documentati di interventi cinesi per il finanziamento di programmi d’aiuto quando l’assistenza estera statunitense è cessata” - leggi. Non è stata tuttavia solo Pechino a sfruttare gli spazi lasciati liberi da Washington. Anche l’Unione europea sta riconsiderando la propria azione. Come ha scritto Euractiv: “Quando l’amministrazione Trump ha smantellato i programmi di aiuti all’inizio di quest’anno, la posizione ufficiale dell’Unione europea era che il blocco non potesse «colmare il vuoto lasciato da altri». Dietro le quinte, tuttavia, funzionari della Commissione europea e del Servizio europeo per l’Azione Esterna discutevano dei passi che l’UE avrebbe potuto intraprendere, purché questi servissero agli interessi e ai valori europei” - leggi.
Parole chiave: UsAid; Tagli all’assistenza; Soft power cinese
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