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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 27/08

La scaltra diplomazia britannica capì con grande anticipo, ancora in piena epoca vittoriana, che il periodo d’oro del colonialismo classico si stava esaurendo. Fin dagli anni Ottanta del XIX secolo cominciò così ad introdurre il concetto di “Commonwealth britannico”, in tal modo anticipando persino la fortunata intuizione di Giuseppe Tomasi di Lampedusa: “Se vogliamo che tutto rimanga com'è, bisogna che tutto cambi”. Meno abili furono le altre grandi potenze coloniali di allora e in particolare la Francia, incapace di percepire lo spirito dei tempi come hanno poi dimostrato le tragiche guerre in Indocina e soprattutto in Algeria. Sembra che ancora oggi Parigi non sia riuscita ad elaborare il lutto della perdita del proprio impero coloniale e si muova con impaccio nei confronti di quei paesi ormai da molti decenni indipendenti ma dai quali la “metropoli” si aspetta ancora una considerazione particolare. Tutto questo emerge dalla bella intervista al docente della Sapienza Jean-Léonard Touadi, pubblicata su Startmag.it (leggi) ed incentrata sulla crisi in Niger.

 

Non sono pochi gli autori che indicano nell’Africa il futuro potenziale protagonista dell’economia mondiale, soprattutto in considerazione dell’enorme ricchezza in materie prime. A formulare queste ipotesi sono spesso giovani ricercatori di origine africana ma con una formazione “occidentale” che tendono ad applicare, nelle loro analisi, paradigmi che difficilmente si attagliano alle realtà del loro Continente. Potrebbe essere il caso anche dell’interessantissimo testo del kenyano Anver Versi, pubblicato su Equilibrimagazine.itleggi. Tuttavia, prima di cedere al pregiudizio, vale la pena soffermarsi sulla citazione – riportata nei primi paragrafi dell’articolo – da uno scritto di Ngozi Okonjo-Iweala, ministro delle Finanze nigeriano, sull’imprevedibilità delle forme e dei tempi di sviluppo socioeconomico di intere macroaree geografiche. Ci è allora possibile riflettere sul fenomeno delle attuali migrazioni dall’Africa, azzardando un paragone con quelle dei “boat people” vietnamiti di cinquant’anni fa; e la riflessione può arricchirsi leggendo un’analisi sul Vietnam attuale, quale quella pubblicata nel 2021 sul Sole24Oreleggi.

 

La primavera 2024 costituirà probabilmente uno snodo politico-istituzionale di portata storica. La campagna elettorale americana starà entrando nella sua fase cruciale e sarà verosimilmente in quel momento che l’Amministrazione Biden farà il possibile per favorire la fine della guerra in Ucraina e così intestarsi il merito della pace. Nel contempo, sull’altra sponda dell’Atlantico i politici europei dovranno definire strategie ed alleanze politiche in vista delle elezioni di giugno. Ovviamente le scelte di fondo si configureranno durante l’inverno, ma sarà in primavera che si comincerà a capire se l’ago della bilancia si sarà spostato con decisione in una direzione o in un’altra. Il risultato delle recenti elezioni spagnole, con l’arretramento della destra estrema, ha fatto tirare un sospiro di sollievo a molti, ma lo spettro nazional-populista si aggira ancora per l’Europa (come, parafrasando Marx, scriveva MicroMega un paio di anni fa – leggi). Per intanto, stiamo ancora assistendo alle mosse preliminari e agli iniziali posizionamenti dei leader. Il primo chiarimento verrà dalla decisione di Ursula von der Leyen circa la sua ricandidatura alla Presidenza della Commissione. Euractiv.com propone una riflessione sulle possibili conseguenze di tale decisione: leggi.

 

Poco nota ai più, la Ciamuria (Tsamouriá per i greci) è una regione a cavallo della frontiera greco-albanese abitata da popolazioni delle due etnie che, da una parte e dall’altra del confine, si configurano come rispettive minoranze etno-linguistiche. Naturalmente, uno Stato membro dell’UE e un candidato all’adesione dispongono entrambi di apparati giuridici per la tutela dei gruppi minoritari e tutto sommato i rapporti a livello istituzionale e nella quotidianità locale sono buoni. Come sempre accade però – e in particolare in un’epoca di nazionalismi rampanti – il tema delle minoranze è spesso portatore di tensioni. L’arresto di un candidato sindaco greco (poi risultato eletto – si veda il dispaccio dell’Agenzia Novaleggi) a due giorni dalle elezioni in un comune dell’Albania è un casus belli irrisolto dal maggio scorso – si vedano le reazioni di parte greca (da Euronewsleggi) ed albanese (da BalkanInsightleggi). Che la situazione non sia ancora decantata è evidenziato dal mancato invito del premier Rama al vertice organizzato dalla Grecia con i paesi dei Balcani nel ventesimo anniversario della dichiarazione di Salonicco sull’allargamento dell’UE (di cui ha ampiamente scritto Il Piccolo del 23 agosto). La ragione di tale esclusione è stata esplicitamente rivendicata dal Governo greco, come riporta il sito Argumentum.alleggi.   

 

Come in parte lo è stato il voto in Spagna del luglio scorso, anche le elezioni del prossimo 15 ottobre in Polonia stanno diventando l’ennesimo banco di prova della tenuta democratica nei paesi dell’Unione europea. Inoltre, mano a mano che ci si avvicina alla data delle elezioni europee del prossimo anno, è ovvio che le prove elettorali nazionali assumono il valore di sondaggi a grandezza reale. Molte speranze aveva suscitato la disponibilità di Donald Tusk a guidare una piattaforma civica che sembrava poter efficacemente contrastare la destra ultra-nazionalista del partito di Governo di Jarosław Kaczyński (ne aveva scritto l’Istituto Affari Internazionali nel luglio 2021: leggi). Tuttavia, ancora una volta le opposizioni non sembrano intenzionate a proporre un fronte unito. Inoltre, come ben spiega un articolo apparso sul sito GlobalEurope.eu della Bertelssmann Stiftung (leggi), le forze politiche che si oppongono al premier reazionario (alla ricerca di una terza riconferma consecutiva) si ritrovano a chiedere il voto dei cittadini facendo leva più sul contrasto ideologico ad un partito illiberale e di discutibile fede democratica, che su un concreto programma alternativo per l’azione di governo: qualcosa che osserviamo anche in altri paesi, compreso quello che conosciamo meglio.

 

A lungo, pur senza giungere a critiche esplicite e dirette nei confronti del Papa, molti organi d’informazione italiani sembravano trovare eccessivamente prudente e defilata la posizione della Chiesa nei confronti della guerra in Ucraina. Per questo, l’iniziativa affidata qualche mese fa al cardinal Zuppi ha ricevuto grande attenzione ed è stata presto definita “missione di pace” (si veda, ad esempio, un articolo de Il Giornaleleggi). È pertanto molto sorprendente che sia passata praticamente inosservata (seppure con qualche eccezione) l’udienza accordata da Papa Francesco al generale americano Mark Milley, l’ufficiale più alto in grado della NATO (si veda in proposito quanto scritto su Officinadeisaperi.itleggi). Tanto più che in occasione del suo viaggio a Roma, Milley vi ha incontrato anche il generale libico Haftar, come si scopre leggendo l’anodino sito d’informazioni Mittdolcinoleggi. Il Vaticano non ha fatto mistero di essere particolarmente preoccupato per la sorte dei civili ucraini (e dei bambini soprattutto), ma anche per quella dei migranti che cercano di attraversare il Mediterraneo. Forse anche le vie della diplomazia d’oltre Tevere sono infinite.