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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 23/11/25

Mentre la legislatura che vede al governo della Polonia una coalizione di partiti moderati guidata dal centrista Donald Tusk è giunta a metà del suo mandato (salvo imprevisti le prossime elezioni si terranno nell’autunno 2027), il conservatore Karol Nawrocki ha tagliato il traguardo dei suoi primi cento giorni da Presidente della Repubblica partecipando a Varsavia alla “marcia dell’indipendenza”, un evento che, secondo il Tages Anzeiger, “si è trasformato, negli ultimi anni, in una delle più grandi manifestazioni delle forze di destra e di estrema destra in Europa” (leggi).
Si tratta di un segnale molto chiaro del perdurare e rafforzarsi dei sentimenti nazionalisti e reazionari nella società polacca, come riferito anche da una corrispondenza da Varsavia pubblicata da ABCNewsleggi.

D’altronde, la stessa alleanza di governo è composta da forze di tendenza assai moderata: l’unico partito di centro-sinistra che vi fa parte (Nowa Lewica) rappresenta poco più del 10% del totale della coalizione (leggi i risultati delle ultime elezioni sul sito IPU Parline).
Tale realtà condiziona inevitabilmente il lavoro legislativo, soprattutto quando vengono trattati temi eticamente sensibili: rimane una ferita ancora aperta la sconfitta del Governo nel voto parlamentare che, nel 2024, ha respinto la legge sulla depenalizzazione dell’aborto, definita da Euronews “un elemento chiave del programma di Tusk” (leggi).

Lo scenario politico globale appare in ogni caso egemonizzato dalle destre, con un costante riposizionamento di movimenti e leader su posizioni sempre più estremiste e radicali. Illustra la situazione della galassia (arci-) conservatrice polacca un articolo sul sito della rete televisiva TVP World che prende lo spunto dalla summenzionata “marcia dell’indipendenza”: leggi.
 
Parole chiave: Polonia; Destra
Il porto di Haifa (per la gestione del quale il gruppo indiano Adani ha una concessione fino al 2054: leggi su Fortune India) è oggi guardato con grande interesse quale possibile snodo primario per il corridoio IMEC.
Tuttavia, anche l’area marina antistante la costa israeliana, dove sono in corso attività estrattive, sta a sua volta assumendo un potenziale ruolo nello sviluppo di collegamenti fisici (condutture sottomarine) tra Israele e l’Europa.

Lo sforzo bellico sostenuto da Israele negli ultimi due anni è pesato moltissimo sul bilancio dello Stato ebraico e le risorse derivanti dalle royalties percepite per lo sfruttamento dei giacimenti di gas del Mediterraneo orientale (tutti i dettagli sono stati descritti da Pandora Rivistaleggi) hanno importanza fondamentale (leggi sul sito Globes.co.il).

Si comprende quindi che, appena entrato in vigore il cessate il fuoco a Gaza, si siano rilanciati programmi congelati durante la guerra, ma immediatamente tornati d’attualità. Il primo progetto che dovrebbe essere avviato sarà la costruzione di un gasdotto verso Cipro che – come ha scritto Formiche.netleggi – “non solo porterà il gas sull’isola, ma apre una serie di scenari per l’intero quadrante” geopolitico. In gioco c’è infatti un altro e ben più ambizioso progetto denominato Eastern Mediterranean Interconnector (EastMed), destinato a far affluire direttamente il gas di origine israeliana nella rete dell’Europa continentale, con un’interconnessione ad Otranto: leggi sul sito della società greca del settore Depa.

L’iniziativa ha evidentemente enormi risvolti politici e strategici e molti sono gli interrogativi – non ultimi quelli di carattere etico ed ambientale – che possono essere sollevati, come fa un puntuale articolo di Valori, portale della Fondazione Finanza Eticaleggi.
 
Parole chiave: Israele; Gas; EastMed
 
 
 

Quando in autunno la Commissione pubblica le relazioni annuali sullo stato di avanzamento del processo di adesione nei paesi interessati, in ciascuno di questi ultimi la locale Delegazione (ambasciata) dell’UE spesso organizza una presentazione pubblica della relazione stessa.
Quest’anno, in Serbia, la presentazione ha avuto effettivamente luogo, ma non nella capitale, bensì a Niš, quasi fosse stato deciso di mitigare l’attenzione sul documento (leggi il resoconto sul sito ufficiale della Delegazione).

La relazione 2025 (scaricabile dal sito istituzionale) è infatti molto critica nei confronti del più grande e politicamente rilevante paese dei Balcani occidentali ed esplicita nel sottolineare come nel periodo sotto esame – secondo quanto riferito da EUNewsleggi – “se non ancora compromesso, il decennale percorso di Belgrado verso il club a 12 stelle si è impantanato nella gestione sempre più autoritaria dell’apparato statale da parte di Aleksandar Vučić, la violenta repressione delle proteste studentesche e gli ammiccamenti sfrontati del presidente verso Mosca”.

Anche la Commissaria all’allargamento, la slovena Marta Kos, non ha lesinato gli ammonimenti, dichiarando, secondo quanto riportato da Balkan Insight, che “la Serbia deve «invertire con urgenza la dinamica regressiva in materia di libertà di espressione e di libertà accademica»” e che “i politici serbi devono evitare la retorica ostile nei confronti dell’UE e del Parlamento europeo” (leggi).

Il centro studi International and Security Affairs Centre (ISAC), con base a Belgrado, ha dal canto suo posto in evidenza il deteriorarsi della situazione con riguardo alla PESC (Politica Estera e di Sicurezza Comune), causato in particolare dal rifiuto del Governo di allinearsi alla politica sanzionatoria dell’UE nei confronti di Russia e Cina (leggi).

Non ha ovviamente apprezzato le conclusioni della relazione il presidente Aleksandar Vučić che, secondo l’Agenzia Nova, “ha dichiarato che la relazione annuale della Commissione europea sui progressi della Serbia verso l’integrazione «è un’opinione della Commissione, non lo specchio del reale progresso del Paese»” (leggi).

Parole chiave: Serbia; Processo di adesione; Ritardi
 

L’espressione «malato d’Europa» ha una lunga storia poco nobile, applicata […] al Regno Unito durante la stagflazione e le agitazioni sindacali degli anni ’70. Oggi torna a serpeggiare nei corridoi di Westminster e della City”. Sono le parole d’apertura di un articolo di Euronews del 13 novembre scorso che si sofferma sulle difficoltà incontrate dal governo Starmer mentre la Ministra delle finanze Rachel Reeves sta predisponendo una manovra d’autunno che “dovrà conciliare rigore fiscale e promessa di crescita, un’equazione che mette in difficoltà i governi da decenni” (leggi).

Se le preoccupazioni per l’andamento economico sono evidenti, i problemi dell’esecutivo sono pure di carattere politico, con il Primo ministro recentemente indebolito (anche all’interno del suo partito) da uno scandalo che ha portato alle dimissioni di Angela Rayner, vicepremier e Segretario di Stato per l’edilizia abitativa – ha illustrato importanza e conseguenze del caso un articolo di Affari Internazionalileggi.
Tutto questo mentre i sondaggi indicano che il partito di Nigel Farage Reform UK è nettamente in testa nelle intenzioni di voto: 30% contro il 20% dei Laburisti e il 18% dei Conservatori (leggi sul sito Opinion).

È quindi comprensibile che Keir Starmer punti molto su una ridefinizione dei termini della Brexit che produca qualche vantaggio per i cittadini britannici. Dopo aver lanciato a maggio il “reset” dei rapporti con Bruxelles (ne scrisse l’ANSAleggi), si appresta ora a riprendere i negoziati su aspetti concreti. Ma, come ha scritto Politico.eu, “a sei mesi di distanza, passare ai fatti si sta rivelando difficile. E, come spesso accade, il nodo principale riguarda i soldi” - leggi.

Parole chiave: Regno Unito; Brexit; Reset
 
A voler essere benevoli, la spregiudicatezza di cui dà prova Donald Trump in ogni circostanza e in ogni contesto potrebbe essere vista come un’applicazione estrema del principio della Realpolitik (leggi quanto scritto dal prof. Mauro Calise in un articolo riproposto da Città Futura).
Non c’è dubbio che tale principio – definito dalla Treccani come “prassi politica che consideri il mantenimento e l’allargamento del potere come fini a sé stessi” (leggi) – sia consono all’agire politico del Presidente statunitense.

L’ennesima prova si è avuta con la visita alla Casa Bianca del leader siriano Ahmed al-Sharaa ad un anno giusto dalla presa del potere a Damasco e dalla fuga di Bashar al Assad a Mosca (leggi il resoconto di fatti fornito dall’ANSA).
Se per al-Sharaa “la visita faceva parte di una «nuova era» in cui [la Siria] avrebbe collaborato con gli Stati Uniti” (leggi sulla BBC), per Trump lo “sdoganamento” di al-Sharaa (sul cui capo pendeva fino a dicembre 2024 una taglia da 10 milioni di dollari – leggi su Notizie Geopolitiche) è apparso funzionale alla propria visione di un riallineamento dei rapporti di forza in Medioriente, compreso il contenimento dello Stato islamico “presenza ancora concreta, sebbene latente”, come ha scritto un puntuale articolo dell’ISPI – leggi.

È interessante notare come si tenda ormai spesso a considerare superato il problema dello Stato islamico e della minaccia che esso rappresenta (sempre l’ISPI, in un altro articolo, suggeriva che “oggi la minaccia jihadista è meno acuta, o almeno così sembra se la si osserva dalla prospettiva dell’Occidente, che spesso presta scarsa attenzione a ciò che accade in regioni “remote” come l’Africa subsahariana” – leggi).
Proprio in occasione della visita di al-Sharaa a Washington, lo Stato islamico si è fatto sentire, con un durissimo comunicato al riguardo, riprodotto integralmente sul sito americano Middle East Forum – leggi.
 
Parole chiave: Trump; al-Sharaa; Siria; Stato islamico