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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali 15/11 - 21/11

Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali 15/11 - 21/11

 

Siccome il rifiuto di Donald Trump di riconoscere la vittoria elettorale di Joe Biden assume toni grotteschi che facilmente attirano l’attenzione dell’opinione pubblica, trovano quasi più spazio sui giornali le notizie relative a nuove azioni legali contro presunti brogli che le analisi sulle probabili linee d’azione del nuovo Presidente. Eppure tutto lascia supporre che l’amministrazione Biden agirà con notevole discontinuità rispetto al quadriennio trumpiano. E probabilmente le conseguenze si manifesteranno anche vicino a noi, nei Balcani occidentali, perenne puzzle irrisolto, che Biden conosce molto bene, come spiega con chiarezza il bel articolo di “Affari Internazionali” (leggi

 

 

 


Mentre i soldati russi si dispiegano lungo la linea di cessate il fuoco tra Armenia e Azerbaijan, il Presidente russo Vladimir Putin ha rilasciato un’intervista alla stampa del suo paese, sfoggiando un aplomb istituzionale alquanto sorprendente per uno dei protagonisti (sebbene defilato) della mini-guerra tra i due vicini del Caucaso. Atteggiandosi un po’ a statista, un po’ a storico, ha riconosciuto il diritto della Turchia a schierarsi con l’Azerbaijan, ma ha anche fatto risalire i mali della regione al dissolvimento dell’Unione sovietica. Riferisce in merito un articolo pubblicato sul sito della Luiss “Sicurezza Internazionale” (leggi)

 

 

 

Quando, ancora in un’altra epoca, i quotidiani erano la principale fonte di informazione, i maestri (di vita) ammonivano i giovani: “quando non puoi permetterti di leggere due giornali, leggi quello che non la pensa come te”. Se è infatti spesso rassicurante leggere un’opinione che coincida con la nostra, sono di solito le idee con le quali siamo meno in sintonia a farci riflettere. Prendiamo il caso del veto posto da Polonia ed Ungheria (appoggiate ora anche dalla Slovenia) all’approvazione del bilancio previsionale 2021-2027 dell’UE per paura di trovarsi obbligate a rispettare niente di meno che i principi dello stato di diritto. Tutta la stampa progressista e filoeuropea stigmatizza duramente tale scelta; eppure c’è chi con stile apparentemente distaccato saluta tali due paesi come baluardi del “movimento conservatore”. L’articolo in questione è apparso sul sito di Insideover (emanazione de il Giornale) e la sua lettura, magari turandosi il naso, può essere istruttiva: (leggi)

 

 

 

I gilè gialli chi? Quanti ricordano ancora lo sconquasso causato in Francia meno di due anni fa da centinaia di migliaia di manifestanti (anche violenti) decisi a spazzar via il Presidente Macron e la sua amministrazione? Oggi la Storia sembra accelerare il passo e due anni sono sufficienti a cambiare il mondo: figurarsi l’opinione delle persone sul loro Presidente! Anche là dove la protesta è nata, nella Francia profonda e rurale, i gilè gialli sembrano essere stati sfilati e riposti. La rabbia di chi li indossava ha perso veemenza e, come scrive il giornalista inglese John Lichfield su “Politico”, Macron può addirittura contare su un piccolo fan club tra i suoi ex detrattori: (leggi)

 

 

 

Da quando i fratelli Coen vinsero l’oscar con Non è un paese per vecchi (2007), tale titolo è stato parafrasato innumerevoli volte per sottolineare situazioni nazionali o locali in cui è ai giovani che sono precluse prospettive di benessere e sviluppo. In Italia, uno degli indici statistici più preoccupanti è proprio quello che mette in rilievo quanti siano i giovani che non seguono un percorso formativo, né cercano un lavoro: i cosiddetti Neet (Not in Education, Employment, or Training). Va quindi salutata e sostenuta l’iniziativa di cui ha parlato il sito in italiano di “Euractiv”, pubblicando l’appello di associazioni ed altri enti a favore di un potenziamento del sostegno europeo ad azioni e programmi destinati ai giovani: (leggi)

 

 

 

 


Esattamente venticinque anni fa, Slobodan Milošević, Franjo Tuđman e Alija Izetbegović trascorsero le tre prime settimane di novembre in una base dell’aviazione americana in prossimità di Dayton, nell’Ohaio. Erano “ospiti” di Richard Holbrooke, Vicesegretario di Stato dell’Amministrazione Clinton, che con non poca abilità negoziale (ma anche con una certa propensione ad accettare complesse formule di compromesso) riuscì a far loro firmare un accordo che pose fine alla guerra in Bosnia. Quanto bizantino e poco funzionale fosse tale accordo è sotto gli occhi di tutti da venticinque anni. Praticamente da subito molti osservatori lo considerarono destinato ad un rapido fallimento; invece continua a reggere, come cristallizzato nella storia recente dei Balcani: spesso niente è più definitivo di ciò che sembra provvisorio. Cinque anni fa, il “Guardian” pubblicò un interessante articolo per il ventennale della firma dell’Accordo di Dayton. Potrebbero ripubblicarlo semplicemente cambiando la data, tanto tutte le osservazioni restano valide: (leggi)