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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 02/11/25

 

L’esito delle elezioni statunitensi è in genere deciso dai cosiddetti Swing States, gli Stati in bilico contendibili da democratici e repubblicani, dove i candidati si impegnano più a fondo proprio perché il risultato non è scontato. (Leggi su Internazionale un reportage relativo alle presidenziali del 2024.)

Recentemente, analisti ed accademici hanno iniziato ad applicare il termine “swing” anche a Stati sovrani, in particolare alcuni dei membri dei BRICS. La rivista Foreign Affairs ha titolato “Stiamo perdendo gli stati in bilico – Washington spinge i BRICS a diventare un blocco antiamericano” (qui il rinvio alla pagina, non disponibile in libera lettura).

Con posizione parzialmente diversa, sul sito dell’Università di Stanford il politologo, diplomatico e accademico statunitense Michael McFaul sostiene (leggi) che “paesi come l’India, il Sudafrica, la Turchia e il Brasile sono stati in bilico. Non si schiereranno in modo netto né con Washington né con Pechino” e aggiunge che “il gruppo dei BRICS è un esempio perfetto di democrazie e autocrazie che collaborano all’interno della stessa coalizione”.

Quest’ultima osservazione sembra suggerire un’abdicazione delle democrazie nei confronti dell’intransigente rispetto dello stato di diritto nei rapporti internazionali (oltre il livello fisiologico di ipocrisia della Realpolitik, da sempre connaturale alle relazioni diplomatiche).
Di questo si parla in un breve ma molto interessante dibattito (30 minuti) disponibile sul sito di Deutsche Welle (ascolta – meglio con il browser Chrome), che prende lo spunto da quanto dichiarato pochi giorni orsono dal Cancelliere Merz: “Stiamo assistendo alla fine temporanea di un ordine multilaterale basato su regole e fondato sul diritto internazionale.
Ci troviamo in una fase in cui, in molte parti del mondo, prevale la legge del più forte
”, come riferito da European Politics Review – leggi.

Parole chiave: BRICS; Crisi della democrazia; Stato di diritto
Se l’opportunismo è un parametro per valutare l’abilità di un politico, allora Viktor Orbán – recente ospite del Governo italiano – dev’essere considerato politico abilissimo. Nella già lunga carriera pubblica, la sua parabola ideologica lo ha portato infatti a sostenere posizioni anche antitetiche. Vale la pena rileggere un articolo de Il Foglio del 2018 per comprendere la spregiudicatezza del personaggio: da giovane liberale esalta la memoria di Imre Nagy, leader della rivolta antisovietica del 1956, mentre da Capo del Governo dichiaratamente illiberale ne fa rimuovere la statua davanti al Parlamento di Budapest: leggi.

Oggi, come scrive EuroFocus “Orbán continua a godere di consenso nonostante il rallentamento economico e l’indebolimento della democrazia”. A ciò contribuisce il ricorso al “vittimismo storico – dal Trattato di Trianon del 1920 e dalle perdite della Seconda guerra mondiale, fino alla sconfitta della rivoluzione del 1956. L’identità dell’«ungherese oppresso ma orgoglioso» si inserisce perfettamente in questo ethos, rafforzando il messaggio di Orbán: «L’Occidente ci ha traditi; dobbiamo contare solo su noi stessi»” (leggi).

È qui interessante notare un’altra apparente contraddizione: nel suo personale scontro con l’Occidente, impersonato in realtà soprattutto dalla “liberale, burocratica Bruxelles” (ibidem), il Primo ministro ungherese sostiene l’adesione all’Union europea dei Balcani occidentali, in particolare – ma non solo – di quelli che percepisce come politicamente affini. (Sull’assistenza alla Republika Srpska dell’alleato Dodik leggi un articolo di Balkan Insight.)

Un’attenta analisi dell’impegno profuso da Budapest nella regione è proposto dal Center for Western Balkans Studies in un articolo che si conclude con propositi preoccupanti: “i leader ungheresi presentano la loro strategia nei Balcani come sovrana e pragmatica, volta a garantire benefici economici e politici. In realtà, le azioni dell’Ungheria nei Balcani occidentali sono strettamente intrecciate con la promozione degli interessi di Russia e Cina”: leggi.
 
Parole chiave: Viktor Orbán; Vittimismo; Balcani occidentali
 

Dopo essere stato etichettato “riserva della Repubblica”, Mario Draghi è stato a più riprese definito – in particolare dalla stampa italiana – anche “riserva dell’UE” (leggi sull’Huffpost del 2021 e leggi su La Presse del 2023).
Visti certi tratti algidi del suo carattere, è lecito chiedersi se l’ex presidente della BCE sia adatto a ricoprire ruoli di vertice nelle Istituzioni più “politiche” dell’Unione.
Resta il fatto che, quando interpellato, non rinuncia a prendere posizione su tutte le grandi questioni inerenti al funzionamento e all’agire dell’UE. Ne è esempio il rigore con cui ha assolto l’incarico affidatogli lo scorso anno da Ursula von der Leyen di preparare un rapporto sul futuro della competitività europea.

Nel commentare e commendare tale rapporto, la rivista Il Mulino ha segnalato tuttavia che esso “rischia di restare un libro dei sogni” (leggi). Forse destinate allo stesso libro sono anche le parole pronunciate da Draghi il 24 ottobre scorso, quando gli è stato conferito il premio Princesa de Asturias.
Nel breve discorso di ringraziamento (ascolta su YouTube) “ha indicato il «federalismo pragmatico» come l’unica via d’uscita per l’Unione europea di fronte alle sfide geopolitiche, dalla difesa all’energia”, proponendo soluzioni quali le “coalizioni di volenterosi” nel cui ambito “invece di attendere l’assenso di tutti i 27 Stati membri, i paesi che hanno i mezzi e la volontà devono unire ricerca, investimenti e sviluppo in aree strategiche” (come riferito dal Quotidiano Nazionaleleggi).

Pochi giorni dopo quell’intervento, il Parlamento europeo ha votato una risoluzione (leggi sul sito del PE) “che lega l’ingresso di nuovi paesi nell’Unione europea alla riforma dell’attuale assetto istituzionale” e che suggerisce di utilizzare “gli strumenti istituzionali già presenti nei Trattati, come le cooperazioni rafforzate, le clausole passerella, con l’opzione sempre presente di op-out” (così Euractiv: leggi). Per una volta, parole affini sembrano accomunare il libero parlare dell’ex Premier italiano e il formale esprimersi dell’Eurocamera: chissà che una sintesi non possa delinearsi.
 

Parole chiave: Mario Draghi; Federalismo pragmatico; Unione europea
 

Quando il 27 novembre 2024 è entrato in vigore l’accordo di cessate il fuoco tra Israele e Libano (il testo completo è stato pubblicato dal Times of Israelleggi), la sensazione fu che si trattasse di uno sviluppo positivo dal punto di vista tattico, ma di un parziale fallimento da quello strategico in quanto non modificava sostanzialmente né i rapporti di forza, né le dinamiche strutturali tra Israele, Hezbollah e lo Stato libanese.

Come asseriva all’epoca Al Jazeera: “che il cessate il fuoco rappresenti una vittoria per Israele o per Hezbollah resta un tema molto dibattuto. Tuttavia, poiché l’accordo non pone fine al conflitto più ampio e su più fronti, porsi il quesito appare prematuro” (leggi).
A meno di un anno di distanza la prudenza del giornale qatariota appare giustificata, visto la recrudescenza degli scontri. Ha scritto Notizie Geopolitiche che “Israele continua a mantenere il controllo di alcune alture strategiche, mentre Hezbollah conserva infrastrutture nel sud del Libano. Le reciproche accuse di violazione dell’accordo sono ormai all’ordine del giorno” (leggi).

Nonostante le perdite inflitte da Israele a Hezbollah quest’ultimo è ancora forte nel paese e sembra persino in grado di condizionare l’operato dell’esercito ufficiale libanese impegnato nella smilitarizzazione delle sue strutture, come si evince da un resoconto della Reuters (leggi). Intanto, in un apparente sforzo di normalizzazione, il paese si avvia verso cruciali elezioni nell’aprile del prossimo anno e già si accendono polemiche in merito alla legge elettorale: leggi su L’Orient Today.

Parole chiave: Libano; Israele; Hezbollah
 
In Polonia, il governo centrista di Donal Tusk è arrivato al giro di boa di metà mandato: il Sejm, la Camera bassa del Parlamento, aveva votato la fiducia al nuovo esecutivo il 12 dicembre 2023 e ora l’attenzione è già focalizzata sulle prossime elezioni legislative previste per il 2027 (leggi sondaggi e tendenze su Politpro.eu).
All’epoca dell’insediamento, il fatto che un europeista come Tusk fosse diventato Primo ministro era stato visto da molti come la premessa di una svolta progressista del paese (leggi cosa scrisse il Guardian).

In realtà nella società polacca sembrano prevalere le tendenze conservatrici, come hanno dimostrato a giugno le elezioni presidenziali, vinte dal candidato di destra Karol Nawrocki (leggi un commento su Vatican News). Il bilancio dell’attività dell’esecutivo non è finora brillante: “Il governo giunge a metà mandato in una situazione difficile: ha perso le elezioni presidenziali, molte delle sue più significative promesse sono bloccate o sono state abbandonate, e sia il primo ministro Donald Tusk sia il suo esecutivo registrano livelli di gradimento molto bassi nei sondaggi”, come ha scritto il sito della televisione polacca TVP (leggi).

Molto schietto (e poco rassicurante) era stato anche il tono di un articolo di Deutsche Welle pubblicato nei giorni successivi alla vittoria di Nawrocki, quando il Governo richiese nuovamente (e riottenne) la fiducia del Parlamento. Analizzando la fragilità della coalizione al potere, la conclusione dell’articolo fu: “Le elezioni parlamentari sono previste solo per l’autunno 2027.
Non è chiaro se il governo di centro-sinistra [sic] guidato da Tusk riuscirà a resistere fino ad allora o se le forze centrifughe si dimostreranno più forti
”(leggi)
 
Parole chiave: Polonia; Donald Tusk; Elezioni