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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 16/11/2025

 
Intervenendo in Bahrein ad un incontro dell’International Institute for Strategic Studies del locale Ministero degli esteri (qui il link dell’evento), l’ambasciatore degli Stati Uniti in Turchia Tom Barrack ha affermato che “il cessate il fuoco a Gaza non ci sarebbe stato senza la Turchia” indicando altresì che “il tipo di rapporto che la Turchia intrattiene con Hamas, non considerata da Ankara un’organizzazione terroristica, le ha permesso di convincere gli ultimi riluttanti ad accettare il cessate il fuoco”, come riferito da Türkiye Today (leggi).

Anche sullo scenario della guerra in Ucraina la Turchia è riuscita a ritagliarsi un ruolo da protagonista in vista del momento in cui inizieranno i negoziati di pace: “Attore di primo piano in Medio Oriente, ha un peso rilevante anche nella contesa ucraina. Gli americani ne sono consapevoli” ha chiosato Geopolitica.info (leggi), offrendo anche una panoramica degli elementi alla base della ritrovata intesa tra Trump ed Erdoğan.

Il Presidente turco intende con tutta evidenza sfruttare la sua “imprescindibilità” (ibidem) per incrementare la potenza militare del paese e porsi sempre più come attore chiave nella regione.
Nel corso della recente visita ad Ankara, il Premier britannico Starmer ha firmato un contratto per la vendita di 20 Eurofighter Typhoon, mentre fonti del governo turco hanno anche segnalato l’intento di acquistare altri 24 velivoli dello stesso tipo da Oman e Qatar.
Il prezzo dei jet acquistati dal Regno Unito supererebbe i 10 miliardi di dollari, una cifra considerata esagerata da alcuni commentatori (ne ha scritto la Reutersleggi). Ma l’operazione ha ricevuto il plauso anche del Cancelliere Merz, che a sua volta si è da poco recato da Erdoğan.
Se in questa occasione i due leader non si sono risparmiati anche qualche critica reciproca, l’accordo sugli Eurofighter è stato salutato unanimemente: leggi su Deutsche Welle.
 
Parole chiave: Turchia; Ruolo di mediatore; Eurofighter;
La posizione critica dell’Ungheria nei confronti del sostegno dell’UE all’Ucraina ha solide basi sia ideologiche (da anni Orbán mantiene stretti legami con Putin), sia economiche (approvvigionamento energetico dalla Russia a prezzi preferenziali).
Ma l’acrimonia nei confronti di Kiev trova fondamento anche nel nazionalismo di Budapest, che accusa (con qualche ragione) il governo ucraino di discriminare la locale minoranza ungherese (circa 100.000 persone). In un sanguigno discorso del 2024, Viktor Orbán aveva affermato: “Non riusciamo a capire cosa stiano facendo gli ucraini nei confronti degli ungheresi lì presenti […], perché sentano il bisogno di togliere diritti alle persone e creare difficoltà quotidiane, e perché debbano interferire con l’esistenza intellettuale e culturale della minoranza ungherese” […] “Ci aspettiamo che un’Ucraina che voglia avvicinarsi all’Europa ripristini pienamente gli standard di tutela delle minoranze e i diritti storici” (leggi sul sito del Governo About Hungary).

Che la posizione anti-ucraina sia di fatto uno dei cardini della politica estera di Budapest è suggerito anche dai tentativi di rianimare il Gruppo di Visegrád, ora che Andrej Babiš (pure critico nei confronti del sostegno all’Ucraina) ha vinto le elezioni in Repubblica ceca: leggi l’articolo di Politico.eu.
La propaganda ungherese si è già messa in moto, come evidenzia un articolo (leggi) apparso sul sito di Brussels Signal, un think-tank conservatore molto vicino al governo di Budapest (ne ha scritto Linkiestaleggi)
 
Parole chiave: Ungheria; Ucraina; Minoranze
 

Le tornate elettorali che si susseguono nell’insieme di paesi in cui vige qualche forma di democrazia stanno premiando le forze che si collocano nell’area che va dal centrodestra alla destra estrema. Tali successi vanno di pari con il diffondersi di sentimenti conservatori, al punto da rendere difficile determinare quale sia la causa e quale l’effetto: se siano cioè le idee reazionarie di una parte dell’opinione pubblica a fungere da propulsore per le forze di destra o se, al contrario, siano queste ultime ad imporre un’egemonia culturale capace di tradursi in sostegno nelle urne.
Almeno in parte le due cose sembrano procedere di pari passo (leggi un documentato saggio pubblicato su Springer Nature). Un recentissimo conflitto istituzionale scoppiato in Lituania esemplifica questa situazione.

Dopo aver ratificato nel 2023 la “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, nota come “Convenzione di Istanbul” (il testo è disponibile sul sito dell’ISTAT – leggi), il Parlamento di Riga (nella medesima composizione!) ha ora votato per il ritiro del paese dalla stessa: leggi su EUNews. In presenza di manifestazioni e proteste contro tale ritiro, il Presidente della Repubblica ha “congelato” la decisione del Parlamento, rifiutandosi per il momento di controfirmare la legge (leggi su East Journal).

Ma il destino di questa vicenda non è affatto segnato. Come scrive il sito lettone Inbox.lv: “Innanzitutto, il tema della Convenzione diventerà ora parte integrante della campagna elettorale. In secondo luogo, l’opposizione di destra si sta preparando a un contrattacco: in Parlamento verranno proposti emendamenti alla Costituzione che intendono affermare chiaramente che in Lettonia sono riconosciuti solo due generi – maschile e femminile” (leggi).

Parole chiave: Lettonia; Convenzione di Istanbul; Destra egemone
 

Il 16 luglio scorso la Commissione europea ha adottato il Quadro finanziario pluriennale 2028-2034 (Multiannual Financial Framework – MFF), integrandolo successivamente (3 settembre) con altre iniziative settoriali: leggi sul sito istituzionale.
Secondo la Commissione, la proposta mirava a rendere il bilancio dell’UE più flessibile, semplificare l’accesso ai finanziamenti attraverso programmi più snelli e prevedere l’introduzione di Piani di livello nazionale e regionale per meglio rispondere alle esigenze locali e rafforzare la coesione.

Da subito, il documento predisposto dall’esecutivo comunitario ha raccolto alcuni giudizi (moderatamente) positivi (leggi il commento dell’Istituto Jaques Delors), ma anche critiche severe come ad esempio quelle del Comitato delle Regioni, l’organo consultivo dell’UE nel quale sono rappresentati gli enti locali (leggi).
Quattordici Stati membri (compresa l’Italia), dal canto loro, avevano addirittura espresso contrarietà nei confronti del progetto prima ancora che il testo fosse pubblicato (leggi su Euronews).

Più recentemente è stata la volta del Parlamento europeo di segnalare la propria insoddisfazione e di chiedere l’abbandono di alcune delle proposte più innovative, come la fusione delle politiche agricola e di coesione (leggi sul sito della Reuters).
Poiché il PE deve esprimere il proprio consenso prima che il MFF possa essere adottato, la Commissione ha già lasciato intendere che alcuni adeguamenti potranno essere introdotti (ne ha riferito EU Perspectives – leggi). Sarà interessante vedere come si strutturerà il confronto interistituzionale nei prossimi mesi.
Un breve ma significativo contributo alla discussione è stato proposto da Marco Buti, per anni figura apicale nei servizi della Commissione, in un articolo pubblicato dal think-tank Bruegelleggi

Parole chiave: Bilancio UE; Quadro finanziario 2028-2034; Innovazioni
 
È del 4 novembre scorso la pubblicazione del “pacchetto allargamento” della Commissione: leggi sul sito della Rappresentanza in Italia (alcune segnalazioni in merito sono già state proposte nell’ultima Rassegna di Dialoghi europei – leggi).
Come ogni anno, tale pubblicazione ha offerto alla Commissione l’opportunità di illustrare la propria linea politica in materia (l’Alto Rappresentante per la politica estera Kaja Kallas ha dichiarato: “L’ordine globale sta cambiando e la sicurezza dell’Europa è sempre più a rischio. L’allargamento è un investimento in un’Europa stabile” – leggi su Europa.eu), ma anche e soprattutto di mettere in evidenza quanto fatto o non fatto dai singoli paesi sul percorso verso l’adesione.

A questo riguardo non sorprendono – ma spiccano – le critiche severe mosse in particolare a quelli che sono forse i due più improbabili paesi candidati, vale a dire la Georgia e la Turchia.
Il rapporto sulla Georgia (leggi) indica esplicitamente che “invece di dimostrare impegno verso una maggiore integrazione con l’UE e attuare le riforme necessarie […] la Georgia si è ulteriormente allontanata dal percorso europeo”.

Come prevedibile, la reazione del Governo di Tbilisi è stata veemente: come riferito dalla piattaforma pro-governativa Imedi, il Ministero degli esteri ha accusato il rapporto di “strumentalizzare l’adesione all’UE per interferire nella politica interna” (leggi).

Più complesso è il giudizio espresso dalla Commissione sulla Turchia. Se il documento si apre con l’affermazione che “la Turchia è un partner fondamentale dell’Unione europea”, poche righe dopo si afferma che “le serie preoccupazioni dell’UE riguardo al continuo deterioramento degli standard democratici, dello stato di diritto, dell’indipendenza della magistratura e del rispetto dei diritti fondamentali non sono state affrontate” (leggi).

Anche da Ankara i commenti sono stati immediati: come scritto da Türkiye Today, “il Ministero degli Esteri turco ha contestato il rapporto […] definendo le valutazioni sull’indipendenza della magistratura, sui diritti fondamentali e sulla politica interna come «di parte, pregiudizievoli e infondate»” (leggi).
 
Parole chiave: Allargamento; Georgia; Turchia