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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 28/01

"Innanzitutto un caloroso benvenuto ai soci del Circolo della Stampa di Trieste che si aggiungono ai lettori della rassegna stampa di Dialoghi Europei, curata da Paolo Gozzi che, troppo modestamente secondo me, la definisce "piccola" proprio nella selezione di oggi: confidiamo di suscitare il vostro interesse e vi ringraziamo dei vostri suggerimenti!
Ma non basta: in allegato troverete l'invito alla prossima conferenza di Dialoghi Europei, non a caso ospitata proprio dal Circolo della Stampa il prossimo 6 febbraio, sulla nuova fase che attende l'UE dopo le elezioni di giugno. Vi attendiamo numerosi! 
Giorgio Perini, presidente di Dialoghi Europei"
 

A inizio 2022, mentre la Russia preparava l’attacco all’Ucraina, le valutazioni in merito alle effettive intenzioni di Mosca erano assai diverse nelle cancellerie occidentali. Ancora il 14 febbraio l’ISPI ricordava che era “almeno la terza volta in un mese che gli Stati Uniti [mettevano] pubblicamente in guardia il mondo da una possibile invasione russa” (leggi). Poco prima, invece, l’allora Presidente del Consiglio Mario Draghi aveva parlato al telefono con Vladimir Putin concordando “un impegno comune per una soluzione sostenibile e durevole della crisi”, come riferito dall’ANSA (leggi). Sebbene mai gli eventi storici si ripetano meccanicamente, i dubbi e le perplessità che circolavano all’epoca riaffiorano ora nei paesi baltici. Tutti e tre ex Repubbliche sovietiche, tutti e tre con la presenza di significative minoranze russofone mal integrate (due anni fa Eastjournal parlò di “russofobia”: leggi), Estonia, Lettonia (entrambe con circa un quarto della popolazione di etnia russa) e Lituania (dove i russi sono il 5%) temono fortemente un attacco di Mosca. Secondo il sito della televisione pubblica estone in lingua inglese ERR News, il modo in cui Putin sta parlando delle tre piccole repubbliche ricalca la retorica usata prima dell’invasione dell’Ucraina: leggi. Preoccupazione ha espresso anche il Ministro degli esteri lituano Landsbergis (come riportato da Euractiv.itleggi), dalle cui parole emerge tutta la differenza di percezione della minaccia russa tra i baltici e gran parte del resto d’Europa.

 

Le cronache dal recente World Economic Forum di Davos hanno dato ben poco spazio ad un evento che qualche interesse avrebbe invece dovuto suscitarlo. Si tratta dell’incontro dedicato alla “Nuova alba eurasiatica”, argomento che in un momento di grande incertezza circa la definizione di nuovi equilibri mondiali – non solo a livello geopolitico, bensì anche a quello economico – poteva fornire indicazioni importanti. (Manca un resoconto scritto, ma la registrazione del dibattito è disponibile sul sito del Forumascolta.) In realtà il solo intervento che abbia ricevuto una qualche attenzione sulla stampa, è stato quello del Presidente serbo Aleksandar Vučić, unico politico di un paese europeo intervenuto. Inoltre, tale attenzione si è focalizzata soprattutto sulle sue affermazioni riguardo all’incidenza negativa che un’economia tedesca in sofferenza ha sui Balcani occidentali. (Ne ha riferito in italiano Euractiv.itleggi). Il tema principale del dibattito riguardava invece le prospettive del cosiddetto “Middle corridor” (ne ha scritto solo qualche mese fa, con grande lucidità, il Geopolitical Monitorleggi), fondamentale via di interconnessione tra l’Asia e l’Europa quale alternativa all’attraversamento della Russia (Northern corridor).

 

Il fatto che la “guerra dei dieci giorni” (27 giugno – 6 luglio 1991) seguita alla proclamazione dell’indipendenza slovena si fosse conclusa con poche decine di vittime non illuse nessuno circa un possibile esito analogo del conflitto che stava per scoppiare in Jugoslavia (ne scrisse ad esempio, a margine di una notizia di cronaca, il Washington Post del 15 luglio 1991: leggi). Accesa la miccia dell’odio nazionalista, il territorio che ne avrebbe sofferto di più sarebbe stato inevitabilmente il più multietnico: quello della Bosnia-Erzegovina. E la ferocia della guerra fu tale che, anche pacificati a forza dalla comunità internazionale, i contendenti non riuscirono ad accordarsi nemmeno su un testo costituzionale che disciplinasse il funzionamento del nuovo Stato. Ancora oggi la Bosnia-Erzegovina, paese candidato all’adesione all’UE (l’iter che ha portato a questo status è descritto sul sito del Consiglioleggi) è retta da una Costituzione redatta in inglese ed inclusa in un semplice allegato (il IV) degli accordi di Dayton (lo ricorda l’Università di Trentoleggi; il testo dell’allegato IV è disponibile sul sito dell’Università del Minnesotaleggi). Ci si chiede inoltre come possa reggersi una democrazia che ha una legge elettorale più e più volte giudicata discriminante (l’Osservatorio Balcani Caucaso ne ha scritto l’estate scorsa: leggi), e che sembra stia per essere modificata con un intervento d’imperio dell’Alto rappresentante Christian Schmidt, come ha riportato pochi giorni orsono lo stesso Osservatorioleggi.

 


La politica agricola comune (PAC) ha rappresentato una delle pietre angolari della costruzione europea. È destinataria del 30% dei fondi del bilancio dell’UE, ma da tempo ormai non sembra più essere in grado di rispondere alle esigenze del settore. Negli ultimi anni la crisi si è improvvisamente aggravata a causa della guerra in Ucraina (una ricerca pubblicata sul sito ResearchGate analizza approfonditamente il problema: (leggi), ma per gli agricoltori la minaccia maggiore sembra essere rappresentata dal Green Deal europeo (sinteticamente presentato sul sito della Commissioneleggi), del quale evidentemente le Istituzioni di Bruxelles non sono riuscite a comunicare l’importanza. Paradossalmente, proprio il settore produttivo che dipende dall’esistenza di un ambiente ecologicamente sostenibile percepisce le misure di tutela della natura come uno strumento che minaccia la sua stessa esistenza. Come ampiamente riportato dagli organi d’informazione (per tutti Euronewsleggi), manifestazioni del mondo agricolo sono quotidianamente organizzate in molti paesi dell’Unione. C’è chi ritiene tuttavia che protestando contro il Green Deal gli agricoltori in realtà “sbagliano mira”, come titola il sito greenreport.it – leggi.

 

Commentando con comprensibile soddisfazione la conclusione dell’accordo tra Italia ed Egitto in merito alla cosiddetta “autostrada del mare” tra Damietta e Trieste, il Presidente dell’Autorità portuale Zeno D’Agostino ha sottolineato come anche il Marocco sia un paese su cui puntare. (Lo ha fatto anche in un’intervista a ShipMagleggi). In effetti le potenzialità del Marocco sono numerose, come ricordava l’ISPI un anno orsono: leggi. Da decenni il paese magrebino cerca una collocazione originale nei suoi rapporti con i paesi della sponda nord del Mediterraneo. Nel 1987 aveva addirittura presentato domanda di adesione alla Comunità economica europea (lo ricorda di sfuggita un articolo sull’allargamento di Pier Virgilio Dastoli su Linkiestaleggi). Ma la politica estera di Rabat si è a lungo concentrata sui rapporti con Francia e Spagna, rapporti condizionati da sempre dalla questione del Sahara occidentale. La rivista marocchina online Hespress ha recentemente riassunto (senza nascondere sentimenti antifrancesi) l’evolversi delle relazioni con Parigi e Madrid: leggi. Abile nello sfruttare situazioni in cui gli equilibri geopolitici sono instabili, la Cina non sta lesinando gli sforzi per assicurarsi, con investimenti di oltre 700 milioni di dollari, una presenza strategica nell’economia del paese, come sottolinea il portale Morocco World Newsleggi.   

 

Questa piccola rassegna stampa di Dialoghi europei si è più volte occupata del colpo di stato in Niger del luglio 2023, segnalando soprattutto articoli e notizie relativi alle conseguenze per la politica africana di Parigi e, di converso, per quella di Mosca. Un articolo apparso su Geopolitica.info poche settimane dopo il golpe di Niamey ha ben sintetizzato questo aspetto: leggi. La crisi nigerina ha tuttavia suscitato preoccupazione in Europa anche per le possibili conseguenze in termini di migrazioni dalla regione subsahariana, come testimonia un articolo de La Stampa (leggi) dell’agosto scorso. Negli stessi giorni, lo IARI analizzava tali conseguenze anche per il cosiddetto Piano Mattei del governo italiano (leggi). Un nuovo campanello d’allarme è risuonato nel novembre 2023, quando la giunta militare ha abrogato una legge intesa a contrastare il traffico di migranti (ne ha scritto Il Postleggi). Ora un passo ulteriore è stato compiuto con la riapertura del posto di frontiera di Agadez, punto di raccolta e partenza per flussi ormai incontrollati di persone dirette a nord, verso la Libia e poi l’Europa. Vi dedica un bell’articolo il New York Timesleggi.