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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 16/07

Scatenando l’aggressione all’Ucraina, Vladimir Putin aveva probabilmente anche l’obiettivo di accreditare la Russia come uno dei pilastri di un nuovo ordine mondiale. Un anno e mezzo dopo, non solo tale obiettivo non è stato raggiunto, ma semmai è il suo contrario ad essersi avverato: in un nuovo ordine mondiale, la Russia potrà al massimo ambire ad un ruolo da junior partner della Cina. Consapevole della sua posizione di forza, la Cina proclama ufficialmente la propria amicizia nei confronti di Mosca, ma mantiene in realtà una posizione assai ambigua. Sta perseguendo con determinazione i propri fini, ribaditi durante il XX Congresso del partito dell’ottobre scorso (si veda in proposito un articolo del Foglio del novembre 2022: leggi) e nel frattempo osserva con attenzione quanto sta accadendo proprio in Russia. L’episodio dell’ammutinamento della Wagner ha probabilmente suscitato qualche preoccupazione a Pechino, ma deve aver anche aggravato il discredito della Russia agli occhi dei vertici cinesi. Un’analisi puntuale di questo aspetto è proposta in un articolo apparso su Linkiestaleggi.

 

Il dibattito ormai diffuso sull’ipotesi di una coalizione PPE-destre radicali nel prossimo Parlamento europeo ripropone un canovaccio non certo originale nella storia delle democrazie, soprattutto quando queste ultime appaiono deboli. Le destre conservatrici tradizionali si portano “garanti” nei confronti di chi professa idee estreme (si veda ad esempio la dichiarazione di Berlusconi riportata dall’ADNKronos nell’ottobre 2021: leggi – ma molto più in là nel tempo si pensi al “patto di pacificazione” del 1921 nella speranza di domare lo squadrismo fascista; la documentazione è sul sito del Senato: leggi). È un po’ quanto successo anche in Israele, con Netanyahu che, durante i negoziati per la formazione dell’attuale esecutivo, ha richiamato il suo passato di leader democratico per “garantire” per i partiti estremisti con i quali si preparava a governare (si veda l’articolo del Times of Israel apparso proprio durante quei negoziati: leggi). La conseguenza più immediata è stata una recrudescenza nell’uso della forza da parte di Israele, come dimostrato dalla recente azione a Jenin e dal drammatico aumento del numero di vittime di entrambe le parti. L’ISPI ha pubblicato un’analisi un po’ didascalica ma senz’altro utile per mettere a fuoco la fase attuale del conflitto israelo-palestinese: leggi. Quanto inconciliabili siano al momento le visioni di tale conflitto è ben esemplificato da un articolo di Al-Jazeera (leggi) e uno del (californiano) Jewish Journal (leggi).

 

La corsa alle “grandi dimissioni”, vale a dire all’esodo volontario di lavoratori dalle aziende presso le quali erano occupati anche con contratti a tempo indeterminato, si è manifestata inizialmente nel periodo post-pandemico di ripresa delle attività economiche e del conseguente aumento delle opportunità occupazionali. Ha tuttavia assunto anche un carattere di scelta relativa alla qualità della vita, soprattutto tra le giovani generazioni. Il fenomeno è apparso dapprima negli Stati Uniti e si è esteso poi anche all’Europa, seppure con caratteristiche diverse, conseguenza della diversità del mercato del lavoro. Ora il New York Times segnala che forse negli USA la dinamica della “great resignation” è esaurita: leggi. In Europa invece la tendenza persiste e testimonia di un più profondo mutamento in atto nel mercato del lavoro. Come segnala un interessante articolo originariamente pubblicato da Alternatives Economiques e ripreso in italiano da Voxeurop (leggi), l’evoluzione del mercato indica uno spostamento dei rapporti di forza a favore dei lavoratori. La particolarità del fenomeno è tuttavia che, contrariamente a quanto suggerirebbe la teoria economica, ciò avviene senza che aumentino i salari: “è come se i dipendenti stessero negoziando migliori condizioni di lavoro invece di un aumento salariale”.

 

Solo qualche mese fa (come riferito da Euractivleggi) i leader di Serbia, Albania e Macedonia del Nord hanno visitato assieme la rassegna Vinitaly 2023, tenutasi a Verona. In tale occasione sostennero che l’iniziativa Open Balkan, nel cui ambito i tre paesi collaborano, aveva davanti a sé prospettive di grande impatto economico a favore dei cittadini. Open Balkan, denominata anche “mini Schengen dei Balcani” è nata da una costola del “Processo di Berlino” voluto da Angela Merkel e avrebbe dovuto contribuire a creare un quadro favorevole allo sviluppo dei negoziati di adesione all’UE. All’epoca del lancio (2021), il fatto che solo tre dei sei paesi della regione vi avessero aderito ha fatto dubitare dell’utilità dell’iniziativa (il Cespi parlò addirittura di “ripercussioni negative”: leggi). Ora, in occasione di un viaggio nelle capitali dei Balcani occidentali in preparazione del prossimo vertice del Processo di Berlino che si terrà a Tirana in ottobre, il Premier albanese Rama è sembrato indicare che Open Balkan ha finito il suo compito (ne ha scritto sempre Euractivleggi). Non sembra essere tuttavia d’accordo il Presidente serbo Vučić, secondo il quale le iniziative autoctone, come Open Balkan, sono più utili di quelle lanciate e guidate da altri paesi (così ha riportato EWB-European Western Balkans nel riferire in merito al viaggio di Rama nelle capitali regionali: leggi).

 

Secondo il vocabolario Treccani, il termine “levantino” è “usato anche […] con valore spreg., per indicare o qualificare persona che sa fare il proprio vantaggio con furberia e senza troppi scrupoli”. Anche a voler sfuggire agli stereotipi, impossibile non pensare a questa definizione guardando al modo in cui Recep Tayyip Erdoğan si è mosso prima e durante il vertice NATO di Vilnius. Dopo aver fatto crescere la polemica nei confronti della Svezia, dando praticamente per scontato il veto turco alla sua adesione all’Alleanza atlantica, con un repentino cambio di registro il Presidente turco ha dato il via libera a Stoccolma, declassando a dettagli irrilevanti la presenza di “terroristi” curdi e di odiatori del Corano nel paese scandinavo. Si è capito a quel punto, che la vera moneta di scambio per l’accordo turco all’adesione della Svezia era la fornitura di caccia F16 da parte degli Stati Uniti, come ben riassunto in un dispaccio della Reuters (leggi). Ovviamente la notizia della vendita degli F16 alla Turchia, accolta molto positivamente da Ankara (leggi quello che ne ha scritto il Daily Sabah), non è stata apprezzata dalla Grecia: ma Joe Biden ha subito tranquillizzato anche il governo greco, annunciando che l’aviazione di Atene sarà parimenti potenziata, come riportato da Greek Reporterleggi.

 

L’estensione a settori sempre più ampi del voto a maggioranza in seno all’Unione europea è un’ipotesi che riemerge costantemente, raccoglie il plauso di molti, ma viene poi lasciata cadere. Per i governi degli Stati membri, unanimità significa potere di veto e il potere di veto è spesso percepito come forza contrattuale. Sovente allora ci si dichiara a favore di un più ampio ricorso al voto maggioritario, affrettandosi però ad aggiungere che richiederebbe una riforma dei Trattati, impensabile in questa fase. In realtà, la possibilità di evitare il voto unanime in specifiche aree legislative è già prevista dai Trattati in vigore, anche se in effetti le procedure (le cd clausola passerella) sono quanto mai farraginose: riesce ad illustrarle in modo sufficientemente chiaro un articolo di Euronewsleggi. Ora però, è stato il Parlamento europeo a votare una Risoluzione (presentata da Giuliano Pisapia) che chiede formalmente agli Stati membri di adoperarsi per giungere ad una riduzione dei voti all’unanimità proprio tramite il ricorso alla clausola passerella. Ne ha riferito EUNews (leggi), senza nascondere ai lettori che la decisione di applicare la clausola passerella per evitare l’unanimità, richiede un voto unanime…