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Rassegna stampa di testate nazionali e internazionali a cura di Paolo Gozzi - 24/09

In una fase storica di ripiegamento nazionalistico, in cui non solo ogni paese, ma quasi ogni comunità territoriale sembra volersi trasformare in una fortezza Bastiani, è notevole che il discorso sullo Stato dell’Unione pronunciato da Ursula von der Leyen il 13 settembre scorso (sul sito Europa la versione italiana: leggi) non abbia suscitato particolari clamori. Si è trattato dell’ultimo consuntivo formale prima delle elezioni europee e del rinnovo delle cariche istituzionali, e la Presidente della Commissione avrebbe potuto cedere alla tentazione di farne un’occasione per presentare un “manifesto” che la aiutasse sulla via di una riconferma. Invece il tono è rimasto tutto sommato formale e il contenuto centrato più sul lavoro svolto che sulle visioni future. È mancato purtroppo un benché minimo accenno alla Conferenza sul Futuro dell’Europa e alle sue 49 raccomandazioni (la relazione finale è sul sito della Commissione: leggi), che attendono sempre di essere prese in considerazione. D’altra parte, è interessante notare come un’analisi specifica dei principali passaggi del discorso affidata ad esperti settoriali abbia evidenziato, seppure in un contesto fondamentalmente positivo, una lunga serie di carenze ed omissioni (leggi sul sito dell’European Policy Centre). Più critico un analogo esercizio ragionato proposto da Le Grand Continentleggi.

 

Quando (1847) Metternich definì l’Italia una pura “espressione geografica”, la sua frase poteva avere un senso dati i tempi e il contesto. Lo stesso si sarebbe potuto affermare, almeno fino al XX secolo, per quella che oggi è la Macedonia del Nord (la cronologia fondamentale del paese è disponibile sul sito Strasbourg-Europe.eu: leggi). Prova ne sono state dapprima le pressioni di Atene per il cambio del nome ufficiale del paese ed ora quelle di Sofia per il riconoscimento della minoranza bulgara. In entrambi i casi, le pretese (scioviniste) dei due vicini balcanici sono state abbinate alla minaccia di un veto all’adesione all’UE. La retorica nazionalista si è presto impadronita della disputa tra Skopje e Sofia. All’interno del Parlamento macedone in particolare si sta profilando uno scontro tra maggioranza e opposizione su una nuova modifica costituzionale (ne ha scritto Eastjournalleggi). Ma le dispute contaminano anche l’interpretazione della storia, argomento particolarmente caro ai nazionalisti di ogni rango, pronti a qualsiasi forzatura in materia. Esemplare, nella contrapposizione tra le due capitali balcaniche, è il caso della commemorazione della deportazione degli ebrei macedoni ai tempi dell’occupazione bulgara durante la seconda guerra mondiale (ne ha parlato a marzo Balkaninsightleggi.)

 

Il Montenegro ha avviato i negoziati di adesione con l’UE nel 2012, mostrando inizialmente una certa determinazione politica a perseguire l’obiettivo, ma anche una discreta capacità amministrativa nell’avvio di alcune riforme. Col passare degli anni, tuttavia, il processo ha perso fluidità e il cammino si presenta ancora complesso. La situazione appare ancor più complicata dopo la sconfitta elettorale del ras Milo Đukanović, egemone indiscusso della politica montenegrina per oltre trent’anni (la notizia, dell’aprile scorso, sul sito di RaiNews: leggi). L’uscita di scena dell’ex sodale di Milošević ha privato il Montenegro di quella “stabilità” assai ambigua, ma tanto apprezzata dalle Istituzioni europee e soprattutto dai loro funzionari che conducono il dialogo con le autorità locali. Il paese è politicamente diviso, con una componente serba molto consistente, il cui lealtà alla patria montenegrina è spesso messa in dubbio. Ma un grosso problema continua ad essere rappresentato anche dalla criminalità organizzata, la cui protervia è stata ancora recentemente dimostrata dalla scoperta di un tunnel scavato fin sotto l’edificio dell’Alta corte per sottrarre prove giudiziali colà custodite – il caso è stato riportato dall’Osservatorio Balcani-Caucaso (leggi). Un quadro articolato dell’evoluzione politica del Montenegro è l’oggetto di una ricerca pubblicata sul sito del CESPI (leggi).

 

Fin dal giorno in cui i carri russi hanno violato la frontiera ucraina nel febbraio 2022, la sensazione che “nulla sarebbe stato più come prima” è stata praticamente unanime. Da subito si è compreso che l’ordine geopolitico preesistente sarebbe stato sostituito da qualcosa di nuovo. In occidente, la ritrovata unità di intenti e di azione dinanzi all'inaspettata pochezza inizialmente dimostrata dell’apparato strategico-militare russo, ha fatto intravedere la possibilità di perpetuare l’egemonia globale delle democrazie liberali guidate dagli USA. Il protrarsi del conflitto, tuttavia, ha messo in crisi tale visione. Molti paesi che pure vantavano rapporti privilegiati con l’Occidente si sono rifiutati di condannare l’aggressione russa e hanno cominciato a delineare nuove alleanze dalle geometrie ancora incerte, ma caratterizzate da una marcata volontà di autonomia decisionale. Mentre la guerra in Ucraina scendeva nelle trincee, un “sud globale” ha cominciato ad opporsi al “nord globale” fornendo una prima indicazione di quali saranno i principali attori del nuovo ordine mondiale. Di questo terremoto sottomarino dagli esiti ancora incerti parla con grande lucidità l’accademico ucraino Nickolay Kapitonenko sul sito IPS-Journalleggi.

 
 
 

Il fatto che il rovesciamento del regime e l’eliminazione fisica di Muammar Gheddafi abbiano rappresentato per la Libia un punto di non ritorno condiziona tutt'oggi le politiche e le strategie che la comunità internazionale persegue nell'intera area nord-africana e mediorientale. Se le cosiddette primavere arabe avevano fatto gridare al miracolo democratico, il loro totale fallimento ha relegato la democrazia nel libro dei sogni e ha fatto dei satrapi locali gli interlocutori privilegiati delle diplomazie di tutto il mondo. Personaggi come l’egiziano Al Sisi o il tunisino Saïed vengono blanditi nella speranza che blocchino le partenze di qualche barcone di migranti, ma si evita di accusarli apertamente per la disastrosa gestione delle loro economie, giunte al punto di collassare. In Egitto l’inflazione è al 40% e le autorità devono ricorrere a sussidi di emergenza e, a questo punto, di sopravvivenza (la preoccupazione traspare anche da fonti di stampa filogovernative come Al Aharamleggi). Una breve ricerca pubblicata dal Fondo monetario ha evidenziato l’esplosività della situazione debitoria dell’intera regione (leggi) ed è facile profetizzare che appena qualcosa andrà storto, ben altre ondate migratorie si materializzeranno. Intanto la tempesta sembra avvicinarsi, come scrive il sito di notizie anglo-qatariota The New Arableggi.

 

La riflessione teorica all’interno del marxismo sull’interazione tra struttura e sovrastruttura ha forse fatto il suo tempo, ma ha anche fornito interessanti suggerimenti per l’analisi delle trasformazioni sociopolitiche. Ha evidenziato ad esempio come tali trasformazioni non siano omogenee e come diversi elementi di una struttura presentino diverse resistenze al cambiamento. Così nel passaggio dall’URSS alla Russia alcuni presupposti sono rimasti pervicacemente immutati. Uno di questi è senz'altro la teoria militare, rimasta ancorata ad alcuni principi che evidentemente continuano ad essere ritenuti corretti. Un esempio accattivante, ma non per questo poco rigoroso, è proposto da un articolo pubblicato sul sito Geopolitica.info. L’autore mette a confronto l’”operazione speciale” di Putin in Ucraina e l’invasione della Cecoslovacchia nel 1968, ricavandone interessanti analogie, ma anche differenze significative (in particolare la sperequazione tra l’entità delle unità impiegate sul terreno): leggi. Per chi volesse approfondire la materia della teoria militare russa non mancano le fonti, ma si segnala senz’altro l’analisi pubblicata da Aspeniaonline nel giugno 2022: leggi.